AcquaOasi, comunità stratificate sull’acquaTra gruppi diversi, nelle Oasi, è per il controllo dell’acqua, della sua proprietà, del suo uso, che hanno avuto luogo conflitti e successivi aggiustamenti, dando origine a quell’ordinamento giuridico di regole condivise che ha reso possibile la vita in luoghi estremi. Ancora oggi, per quanto apparentemente in declino, status, ruoli, istituzioni, che sono il risultato di quella Storia, appaiono in controluce osservando la trama della gerarchia sociale nelle comunità. Oasi di Siwa, Matrouh, Egitto Yann Arthus Bertrand Vista aerea del lago Birket Siwa, con al centro l’isola dove si notano le vestigia di un piccolo insediamento. Cristalli di sale, in trasparenza, modificano il colore dell’acqua. L’Oasi di Siwa è un luogo di contrasti: da una parte altissime dune di sabbia, a ovest della cittadina, al centro tre grandi laghi salati e sparse ovunque, più di un centinaio di sorgenti naturali di acqua dolce. Un insieme unico di caratteristiche che ha portato l’uomo a insediarsi qui, intorno a 12.000anni fa. L’Oasi oggi ha 25.000 abitanti e si trova al centro della depressione del Qattara, nel deserto occidentale egiziano. Gran parte è sotto il livello del mare. Aree desertiche in forte pendenza la chiudono a nord e a sud. A ovest la depressione si apre sul Grande Mare di Sabbia, il deserto libico con suoi 72.000 km quadrati di grandi dune. Le tante sorgenti che forniscono acqua nell’Oasi hanno origine nell’Acquifero Nubiano: è l’immensa riserva di acqua fossile, la più grande del mondo, che si è formata 30.000 -50.000 anni fa e si estende anche sotto Libia, Sudane e Chad. AcquaIniziative pubbliche e private mettono a rischio l’intero patrimonio idrico dell’OasiTra gruppi diversi, nelle Oasi, è per il controllo dell’acqua, della sua proprietà, del suo uso, che hanno avuto luogo conflitti e successivi aggiustamenti, dando origine a quell’ordinamento giuridico di regole condivise che ha reso possibile la vita in luoghi estremi. Ancora oggi, per quanto apparentemente in declino, status, ruoli, istituzioni, che sono il risultato di quella Storia, appaiono in controluce osservando la trama della gerarchia sociale nelle comunità. Oasi di Azougui, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Il proprietario di un palmeto davanti al suo pozzo ormai esaurito. Dietro di lui, quello che rimane delle coltivazioni ormai irrimediabilmente compromesse. La mancanza d’acqua, dovuta in primis al riscaldamento climatico, riguarda anche la cittadina di Atar, l’Oasi che fa da capoluogo della regione. Per risolvere il problema è stato costruito un acquedotto lungo chilometri, che ha sfruttato in profondità le falde utilizzate nelle zone agricole vicine. Tra queste ci sono anche quelle dell’Oasi di Azougui. Si è così contribuito a prosciugare molti pozzi, oltre a quello che appare nella foto. Tra gruppi diversi, nelle Oasi, è per il controllo dell’acqua, della sua proprietà, del suo uso, che hanno avuto luogo conflitti e successivi aggiustamenti, dando origine a quell’ordinamento giuridico di regole condivise che ha reso possibile la vita in luoghi estremi. Ancora oggi, per quanto apparentemente in declino, status, ruoli, istituzioni, che sono il risultato di quella Storia, appaiono in controluce osservando la trama della gerarchia sociale nelle comunità. Nuove infrastrutture idrauliche squilibrio ecologico L’accresciuto intervento statale, la diffusione di moderne tecniche di captazione e pompaggio individuale delle acque, il loro uso anarchico, la conseguente moltiplicazione delle superfici coltivabili, sono gli elementi di novità che sovvertono gli equilibri idrologici nell’Oasi, in presenza di frequenti periodi di siccità. Molti sono i progetti ideati a livello statale: si vuole aumentare la portata del sistema idrico o regolarizzarne il flusso e con questo migliorare anche le condizioni igieniche nei villaggi e la produttività agricola. Non si tiene conto dell’equilibrio, delicatissimo, che governa uno spazio totalmente artificiale come quello dell’Oasi. Equilibrio che hanno sempre garantito, ad esempio, gli antichi sistemi di gallerie drenanti come le Foggara sahariane, le Kriga in Tunisia, le Khettara in Marocco, gli Aflaj in Oman, per millenni in grado di funzionare come miniere d’acqua, ripartita e distribuita secondo le regole del diritto comunitario. Dal patrimonio acquifero, che si tratti di ghiacciai montani, bacini fossili, micro-flussi infiltrati nelle rocce, nella duna e nei sedimenti alluvionali, o condensazione dell’umidità, i sofisticati meccanismi di approvvigionamento collaudati nelle Oasi hanno, infatti, sempre tratto acqua senza esaurirla, avendo cura di mantenerla come fonte rinnovabile. Viceversa, in uno scenario in cui l’aumento delle temperature provoca fenomeni atmosferici estremi, recenti opere pubbliche e iniziative private, concorrono a determinare un rovinoso abbassamento delle falde, la loro salinizzazione. A ciò si aggiunge, in alcuni casi, l’inquinamento delle acque. Oasis di El-Oued, Algeria Yann Arthus Bertrand Coltivazioni con impianto di irrigazione su perno rotante. El Oued, capitale della regione del Suf, 600 km a Sud-Est di Algeri, deve la sua prosperità e la sua fama ai datteri della varietà deglet-nour, esportati in tutta Europa. In anni recenti, per intensificare la produzione agricola, i Sufi hanno espanso il perimetro irrigato, dedicandolo a coltivazioni per i mercati delle città. Cereali, foraggio e verdure crescono in aree circolari – grandi fino a 60 ettari – irrigate per aspersione da un dispositivo di grande potenza, come nella foto. Purtroppo però l’assenza di impianti di depurazione delle acque nei villaggi, unita all’irrigazione su larga scala di queste coltivazioni intensive, ha prodotto effetti nefasti. Non solo è sempre presente il rischio di esaurire la falda profonda, da cui l’acqua viene tratta, ma si inquina anche la falda superficiale, che aumenta di volume con le acque usate, e affiora in varie zone; le abitazioni vengono così attaccate dall’umidità e i palmeti sono invasi da acqua inquinata e stagnante. E’ il fenomeno che in Algeria ha già causato la perdita di un milione di palme da dattero. Costruzione di grandi dighe degrado degli ecosistemi Bacini artificiali dove vengono bloccate e immagazzinate le acque periodicamente raccolte e convogliate dagli antichi fiumi preistorici, gli wadi. Costruite per garantire continuità nell’erogazione idrica durante l’anno, le dighe sembrerebbero una soluzione efficace ai problemi causati da lunghi periodi di siccità. Prima di questo tipo di interventi, l’acqua di piogge irregolari si infiltrava nel sottosuolo degli wadi, dove avrebbe continuato a scorrere, alimentando così la rete idrica di una costellazione di Oasi lungo il suo percorso. Un processo naturale che contribuiva a creare e mantenere il microclima. Nella diga invece l’acqua è stoccata a cielo aperto, soggetta a forte evaporazione, quindi anche a una diminuzione in termini assoluti e viene incanalata nelle tubazioni con uno sbocco obbligato. In questo modo l’intero ecosistema, compreso in un vasto territorio, inizia a degradarsi rischiando di dar luogo un processo di desertificazione. Sparite anche le corporazioni e le competenze che avevano in carico la manutenzione del sistema idrico tradizionale, basato sull’approvvigionamento ingegnoso dagli alvei degli antichi fiumi, restano gli altissimi costi di gestione delle dighe. Questi includono anche oneri consistenti per lo smaltimento dei detriti, che gli wadi periodicamente depositano sul fondo di questi bacini cementizi. Oasi di Manbaa El Ghozlane, Algeria Yann Arthus Bertrand Palmeto allagato, all’interno della diga Fontaine des gazelles nel Massiccio degli Aurès. Spesso la realizzazione di progetti come questo ha avuto esiti contrastanti, ad esempio la modifica del microclima lungo il corso del wadi, con inevitabili conseguenze negative dal punto di vista climatico più in generale. Altri problemi nascono dal fatto che il limo si deposita sul fondo di questi bacini artificiali e il prezioso fertilizzante naturale non viene più trasportato a valle. Diffusione di pozzi individuali uso anarchico delle risorse idriche esaurimento delle falde Il pozzo individuale è oggi realizzabile anche a grandi profondità, grazie a moderne tecniche di scavo meccanico in uso dagli anni ‘70. Lo si trova perciò in esercizio in buona parte delle Oasi, nelle particelle della piccola proprietà agricola e in zone limitrofe su grandi estensioni a coltivazione intensiva. È anche il mezzo che ha permesso l’irrigazione ex novo di intere aree del deserto. L’acqua sembrerebbe così a disposizione secondo necessità, quasi fosse una risorsa illimitata. Chiunque potendo attingere liberamente dalla falda, diventa perciò obsoleto, l’intero sistema che ne regola la proprietà. Una proprietà che nei secoli i matrimoni continuamente tramandavano, frammentavano e riunificavano anche per via ereditaria. Tradizionalmente, infatti, in ragione del contributo dato alla costruzione dell’impianto idrico, ogni famiglia acquisiva una quota del bene comune di maggior valore nell’Oasi. Questo accadeva, ad esempio, nel caso del sofisticato impianto di gallerie drenanti introdotte a partire dall’Anno Mille in Algeria: allo scavo delle foggara, che durava nel tempo, lungo chilometri, partecipavano anche gli schiavi neri che erano nella disponibilità delle famiglie di mercanti arabo-berberi. La fornitura idrica per il villaggio, amministrata dal maestro d’acqua sulla base di regole condivise, sarebbe poi stata ripartita a tempo o a misura secondo la proprietà di ognuno, spesso quindi appannaggio delle élites locali, dandosi perciò anche il caso di affitti o vendita delle quote. Sempre più spesso invece, con il diffondersi dei pozzi individuali, il prelievo d’acqua, smette di essere governato da quello stesso diritto comunitario che lo disciplinava ovunque, anche nelle Oasi dalle tante sorgenti. Lo stesso dicasi per la necessaria manutenzione dell’impianto. Oggi, i numerosi pozzi individuali, che pescano acqua sempre più in profondità, producono conseguenze diverse a seconda della cornice ambientale, comunque catastrofiche, a maggior ragione in contesti climatici dove le piogge sono assenti da anni. Le falde, utilizzate oltre la loro capacità di rigenerarsi, riducono la portata, le acque si salinizzano – di conseguenza salinizzano i terreni – e finiscono per esaurirsi. In altri casi, nelle Oasi di depressione, che esistono grazie a un acquifero fossile importante come ad esempio l’Albien – la più grande riserva di acqua dolce del mondo che si trova nel grande Erg Occidentale algerino – è pur sempre la salinizzazione dei terreni, uno dei fattori che induce la perdita di superfici coltivabili. Un eccesso di irrigazione, non adottando il sistema tradizionale per il deflusso dell’acqua, porta infatti a questo risultato. Oasi di Entkemkemt, Adrar, Mauritania Agron Dragaj La foto mostra due motopompe a gasolio non più funzionanti, utilizzate per estrarre acqua dal pozzo. Sono le ultime di una serie che l’agricoltore, in Mauritania, è costretto a ricomprare molto spesso, trattandosi di macchine poco costose, di bassa qualità, che provengono dalla Cina. L’uso di motopompe nei pozzi individuali, diffusosi negli ultimi decenni, è uno dei fattori che ha contribuito all’esaurimento delle falde acquifere, un evento che in Mauritania ha proporzioni drammatiche. Diffusione di pozzi individuali uso anarchico delle risorse idriche esaurimento delle falde Il pozzo individuale è oggi realizzabile anche a grandi profondità, grazie a moderne tecniche di scavo meccanico in uso dagli anni ‘70. Lo si trova perciò in esercizio in buona parte delle Oasi, nelle particelle della piccola proprietà agricola e in zone limitrofe su grandi estensioni a coltivazione intensiva. È anche il mezzo che ha permesso l’irrigazione ex novo di intere aree del deserto. L’acqua sembrerebbe così a disposizione secondo necessità, quasi fosse una risorsa illimitata. Chiunque potendo attingere liberamente dalla falda, diventa perciò obsoleto, l’intero sistema che ne regola la proprietà. Una proprietà che nei secoli i matrimoni continuamente tramandavano, frammentavano e riunificavano anche per via ereditaria. Tradizionalmente, infatti, in ragione del contributo dato alla costruzione dell’impianto idrico, ogni famiglia acquisiva una quota del bene comune di maggior valore nell’Oasi. Questo accadeva, ad esempio, nel caso del sofisticato impianto di gallerie drenanti introdotte a partire dall’Anno Mille in Algeria: allo scavo delle foggara, che durava nel tempo, lungo chilometri, partecipavano anche gli schiavi neri che erano nella disponibilità delle famiglie di mercanti arabo-berberi. La fornitura idrica per il villaggio, amministrata dal maestro d’acqua sulla base di regole condivise, sarebbe poi stata ripartita a tempo o a misura secondo la proprietà di ognuno, spesso quindi appannaggio delle élites locali, dandosi perciò anche il caso di affitti o vendita delle quote. Sempre più spesso invece, con il diffondersi dei pozzi individuali, il prelievo d’acqua, smette di essere governato da quello stesso diritto comunitario che lo disciplinava ovunque, anche nelle Oasi dalle tante sorgenti. Lo stesso dicasi per la necessaria manutenzione dell’impianto. Oggi, i numerosi pozzi individuali, che pescano acqua sempre più in profondità, producono conseguenze diverse a seconda della cornice ambientale, comunque catastrofiche, a maggior ragione in contesti climatici dove le piogge sono assenti da anni. Le falde, utilizzate oltre la loro capacità di rigenerarsi, riducono la portata, le acque si salinizzano – di conseguenza salinizzano i terreni – e finiscono per esaurirsi. In altri casi, nelle Oasi di depressione, che esistono grazie a un acquifero fossile importante come ad esempio l’Albien – la più grande riserva di acqua dolce del mondo che si trova nel grande Erg Occidentale algerino – è pur sempre la salinizzazione dei terreni, uno dei fattori che induce la perdita di superfici coltivabili. Un eccesso di irrigazione, non adottando il sistema tradizionale per il deflusso dell’acqua, porta infatti a questo risultato. Oasi di Mhaireth, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Un agricoltore è sceso in fondo al pozzo che viene continuamente scavato a quote inferiori per prelevare acqua a profondità sempre crescenti, dato il progressivo esaurirsi delle falde. Accanto a lui, la motopompa a gasolio che sarà avviata per dare il via all’irrigazione del palmeto. Canalizzazioni in terra cruda sostituite dal cemento Concepite come alternativa tecnologicamente avanzata ai tradizionali canali a cielo aperto in terra cruda, le canalizzazioni in cemento sono state introdotte nelle Oasi per ridurre al minimo la dispersione idrica. Hanno finito però per causare numerosi problemi. In alcuni casi, ad esempio, non è possibile monitorare a vista i flussi idrici e eventuali danni nella tubazione; sono comunque costose da riparare e da sostituire. A ciò si aggiunga che non contribuiscono a mitigare l’aridità del clima. E’ quello che si ottiene, invece, utilizzando i canali in terra cruda, la tradizionale rete di seguia, con modesta dispersione e massimo effetto sul microclima. I terreni si impregnano per capillarità lungo tutto il percorso dell’acqua, dallo sbocco fino ai piccoli bacini delle particelle coltivate ed è qui che l’acqua verrà poi stoccata, prima di allagare il palmeto, alla fine di un viaggio che avrà garantito l’umidità essenziale alla vita nell’Oasi. Oasi di Mhaireth, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Tradizionale irrigazione del palmeto per allagamento, all’interno di porzioni delimitate da cordoli in terra. Queste vengono riempite e svuotate in successione, aprendo e chiudendo piccoli varchi. L’intera particella coltivata viene quindi un po’ alla volta ricoperta da uno strato d’acqua, che poi viene fatta defluire. Si eliminano così i sali che, per effetto dell’evaporazione dovuta alle alte temperature del clima desertico, altrimenti si accumulerebbero sul terreno. Irrigazione a goccia salinizzazione dei suoli L’irrigazione a goccia viene introdotta, nello spazio agricolo delle Oasi, per ottenere un risparmio idrico, ma con risultati deludenti. Si vuole sostituire la tradizionale irrigazione per allagamento, che ricopre la particella coltivata con uno strato d’acqua e poi lo fa defluire: il sistema antico che elimina per dilavamento i sali, altrimenti destinati ad accumularsi sui terreni. Nel deserto, persino l’umidità notturna, evaporando, contribuisce al deposito di sali sulla sabbia. A maggior ragione risulta difficoltoso se non quasi impossibile, con l’uso del sistema di irrigazione a goccia, evitare la progressiva salinizzazione dei terreni. Oasi di Mhaireth, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Nell’immagine si notano gli effetti della salinizzazione del suolo, causata dell’alta concentrazione di sali nell’acqua usata per irrigare. E’ la prima conseguenza dell’abbassamento della falda acquifera da cui l’acqua, sempre più scarsa, viene tratta. Nell’Oasi di Mhaireth, che si trova sulle antiche rive di un wadi, ciò è dovuto alla forte diminuzione delle piogge sui rilievi sahariani. Per questo motivo il wadi , l’antico fiume preistorico, è perennemente in secca. Da molti anni le falde dell’Oasi non sono più alimentate dalle sue piene, ma solo attraverso l’infiltrazione sotterranea di rare piogge cadute su lontane montagne, che scorrono al disotto del letto del fiume. Assenza di sistemi di drenaggio danni alle colture In presenza delle riserve sovrabbondanti di alcuni acquiferi fossili sahariani, l’abuso individuale e arbitrario delle risorsa idrica, tramite pozzi e motopompe, spesso va di pari passo con l’assenza di adeguati sistemi di drenaggio nelle nuove aree irrigate delle Oasi. Una grande quantità di acqua, penetrando in modo casuale nel terreno, produce un aumento del livello della falda. Per capillarità, vengono così portate a marcescenza le radici dei palmeti. In altri casi, l’acqua di irrigazione fortemente salinizzata, torna in superficie e ristagna nei terreni collocati nella parte bassa dell’Oasi, provocando la totale distruzione delle coltivazioni Oasis di Chinguetti, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Il tronco disseccato di una palma da dattero. Una delle conseguenze della siccità, dovuta al riscaldamento climatico. La Mauritania, paese all’80 % desertico, con una popolazione di tre milioni di abitanti, per questo motivo rischia di diventare inabitabile nello spazio di vent’anni. Carenze del sistema fognario inquinamento delle fonti di acqua potabile Quando alla mancanza di rete fognaria e di sistemi di depurazione delle acque di uso domestico, situazione assai comune nei villaggi delle Oasi, si aggiunge lo sfruttamento incontrollato dell’acquifero tramite nuovi pozzi individuali, su terreni non drenati, si creano le condizioni per l’inquinamento delle fonti di acqua potabile. La falda, subisce un aumento di volume ad opera delle acque di irrigazione infiltrate, si contamina venendo in contatto con i sedimenti dello smaltimento delle acque di uso domestico. Seppur in ambiente urbanizzato, lo smaltimento nei villaggi, si fa per dispersione. Spesso la risalita di acque contaminate è tanto cospicua che nelle Oasi, in alcune zone ai margini dell’abitato, i terreni assumono un aspetto paludoso e il sistema che garantiva l’acqua potabile diventa inutilizzabile. Oasi di Chinguetti, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Nell’immagine, acqua per irrigazione il cui prelievo incontrollato, tramite pozzi individuali diffusi in modo eccessivo e motopompe, si associa spesso alla mancanza di drenaggio nei terreni e di impianti di depurazione nei villaggi, causando inquinamento e danni alle colture.
TerraOasi è il luogo dove è stata perfezionata l’arte di produrre il suoloL’irrigazione, gli apporti di materia organica, la messa a coltura dei terreni, hanno modificato nei secoli i profili originali dei suoli, la loro composizione, le loro caratteristiche fisico-chimiche, garantendone la fertilità. Questo ha permesso la creazione di un substrato omogeneo, spesso 40 cm, ricco di materia organica e ben areato, che non si mantiene se non attraverso l’azione continua della mano dell’uomo Oasi di Entkemkemt, Adrar, Mauritania Agron Dragaj All’interno del palmeto, un bambino osserva l’arrivo dell’acqua attraverso i tradizionali canali di irrigazione. TerraI terreni agricoli nelle Oasi sono in via di sparizioneL’irrigazione, gli apporti di materia organica, la messa a coltura dei terreni, hanno modificato nei secoli i profili originali dei suoli, la loro composizione, le loro caratteristiche fisico-chimiche, garantendone la fertilità. Questo ha permesso la creazione di un substrato omogeneo, spesso 40 cm, ricco di materia organica e ben areato, che non si mantiene se non attraverso l’azione continua della mano dell’uomo Oasii di Kebili, Nefzaoua, Tunisia Yann Arthus Bertrand Kebili è l’Oasi principale della regione di Nefzaoua, nel sud della Tunisia. Circondata dalle sabbie, la zona fertile viene irrigata grazie ad un affioramento della falda freatica che genera varie sorgenti. Negli ultimi decenni il crescente sfruttamento delle riserve acquifere, dovuto all’uso di motopompe, ha creato spazi agricoli moderni moltiplicando le aree irrigate, col risultato di prosciugare quasi subito le falde superficiali. Ulteriori perforazioni hanno allora sfruttato falde più profonde, ma anche queste sono oggi in via di esaurimento: ci si è “dimenticati” che l’acqua, qui, non è una risorsa rinnovabile. La foto mostra come i terreni si degradino sotto l’effetto di attività umane insostenibili. Di fatto, queste zone lasciate incolte per mancanza d’acqua, vengono invase da piccole dune di sabbia spinte dal vento: queste si riproducono, si raggruppano e portano così alla definitiva desertificazione. Sono perciò attività umane e eventi naturali che, combinandosi insieme, provocano l’avanzata del deserto sahariano. A sud, nel Sahel, troviamo le stesse cause e gli stessi effetti. Su scala mondiale, siccità e desertificazione minacciano più di un miliardo di persone, in oltre 110 nazioni. L’irrigazione, gli apporti di materia organica, la messa a coltura dei terreni, hanno modificato nei secoli i profili originali dei suoli, la loro composizione, le loro caratteristiche fisico-chimiche, garantendone la fertilità. Questo ha permesso la creazione di un substrato omogeneo, spesso 40 cm, ricco di materia organica e ben areato, che non si mantiene se non attraverso l’azione continua della mano dell’uomo Esodo rurale, abbandono della policoltura diminuzione delle superfici coltivabili La coltivazione di particelle di terreno che spesso sono inferiori all’ettaro, tipica dell’Oasi, è tradizionalmente organizzata su tre livelli: sotto la protezione della palma da dattero crescono gli ulivi e gli alberi da frutto e ancora più in basso, le colture stagionali, i cereali, il foraggio. Il cosiddetto “giardino” dell’Oasi, è l’unità produttiva che ha tutelato la varietà di colture autoctone e garantito, con una dieta equilibrata, il fabbisogno alimentare di intere comunità. L’abbandono di queste pratiche agricole, negli ultimi decenni, avviene sia per ragioni tecniche, come la mancanza d’acqua o il deterioramento delle infrastrutture idrauliche, che socio-economiche, come l’esodo rurale. Diretta conseguenza è la progressiva diminuzione delle superfici coltivabili, con la scomparsa di molte specie vegetali e animali, ma anche l’impoverimento nella dieta delle popolazioni. Si tratta spesso di comunità molto ristrette con una prevalenza di anziani, donne e bambini, che vivono in buona parte grazie alle rimesse degli emigranti Oasi di Ghadames, Tripolitania, Libia Reza Deghati Nelle immediate vicinanze dell’Oasi un uomo cammina sulla duna, proteggendosi dalla sabbia portata da una raffica di vento. Lo scirocco che spira dal Sahara verso l’Europa – caricandosi di umidità nel suo passaggio sul mediterraneo – oggi trasporta la sabbia del deserto in quantità sempre maggiori. Ciò accade perché in Africa aumenta l’aridità e la scomparsa delle aree agricole nelle Oasi è un fattore non irrilevante a questo proposito. Diffusione di malattie riduzione del patrimonio arboreo La palma da dattero è soggetta, secondo la varietà e l’ambiente in cui si trova, a differenti malattie, infezioni e infestazioni. Molte hanno origine nella vegetazione che cresce subito attorno al palmeto e in alcune coltivazioni al suo interno, dove si annidano innumerevoli specie di funghi e insetti dannosi. Una corretta e frequente manutenzione dei suoli, all’interno e all’esterno della particella, permetterebbe però di scongiurare gran parte dei problemi. Questa è oggi di difficile esecuzione data la contrazione della manodopera agricola, spesso dovuta ai fenomeni migratori che interessano le Oasi più svantaggiate, in conseguenza del riscaldamento climatico e dell’esaurirsi del patrimonio idrico. E’ così, ad esempio, che milioni di palme da dattero sono state attaccate dal Bayoud, in Marocco – nel secolo appena trascorso. L’intero paese ha subìto – per questo – una devastante perdita di esemplari e della produzione agricola nelle Oasi, causata anche – in alcune zone – dalla perdita di biodiversità dovuta alla monocultura Rhynchophorus ferrugineus, il killer delle palme Marco Petrotta Arriva da lontano, il punteruolo rosso: dalle isole dell’Indonesia e dalle coste dell’India meridionale, l’insetto alato che è il più temibile dei parassiti delle palme, comprese quelle da dattero. Già negli Anni Venti era stato avvistato in Arabia Saudita, dove si installa definitivamente negli Anni ’80, per poi raggiungere il Medio Oriente e il Nord Africa negli Anni ’90. Dal Marocco passerà in Spagna e da lì nel resto d’Europa, sempre utilizzando il veicolo di palme già infette. Ha dimensioni ridotte, rispetto ai danni che provoca, 20/45 millimetri, vive solo 2/3 mesi e attacca esemplari di palme da dattero relativamente giovani, sotto i 20 anni. Di fatto sono le sue larve, deposte nel numero di 200 ogni volta, che trovano nella palma l’ambiente ideale per nutrirsi. Nei 55 giorni prima dello sfarfallamento, grazie al loro robusto apparato masticatorio, scavano gallerie verso l’interno della pianta e danneggiano soprattutto la zona del tronco immediatamente sottostante la corona fogliare. La chioma ingiallisce, comincia ad assumere uno strano portamento e poi collassa. Dopo al massimo 5 anni dall’attacco, la pianta muore e solo a questo punto i coleotteri la abbandonano per trasferirsi su di un nuovo esemplare, che può trovarsi fino a 1 km di distanza. Diagnosi precoce dell’infestazione, trattamenti chimici a seguire e impiego di trappole, sono i metodi di lotta contro la diffusione di questo parassita. Introduzione della monocoltura intensiva eliminazione della biodiversità Laddove si coltiva esclusivamente la palma da dattero, spesso nella varietà più commerciale, tutta la produzione agricola nell’Oasi finisce per essere in pericolo, resa vulnerabile, all’attacco di insetti e malattie, dalla perdita di biodiversità. La monocultura, che sostituisce la tradizionale coltivazione a tre livelli di più specie vegetali, alle volte è il segnale che il totale abbandono della coltivazione della particella, dovuto a una serie di concause, è solo questione di tempo. Spesso la monocultura viene praticata in maniera intensiva anche su grandi estensioni adiacenti ai confini dell’Oasi tradizionale, grazie allo scavo meccanico di nuovi pozzi. Si tratta di attività agricole sostenute da massicci investimenti, ma che vengono attuate senza previa valutazione del loro impatto ambientale. I risultati possono essere diversi: in alcuni contesti si va verso l’esaurimento delle riserve idriche, già soggette a forti oscillazioni dovute al riscaldamento del clima, in altri si produce una sovrabbondanza di acque di irrigazione, di difficile gestione in ambienti desertici senza percorsi naturali di deflusso Oasi di Douz, Tunisia 2008 Patrick Zachmann Coltivazione intensiva della palma da dattero. La perdita di biodiversità che così si produce, col tempo altera la qualità dei suoli e compromette l’intero ecosistema, modificando per sempre l’identità genetica dell’Oasi. Perdita delle competenze nella gestione dello spazio agricolo L’attività agricola che si esercita usando della risorsa idrica non avvalendosi dei sistemi tradizionali di raccolta e distribuzione, quindi anche in assenza del contesto di regole consuetudinarie istituite su basi giuridiche condivise, entra fortemente in crisi nei periodi di siccità quando si abbassa il livello delle falde idriche. Periodi che, nel passato, erano sapientemente gestiti dalle comunità senza mai arrivare al collasso dell’intero sistema. Nell’Oasi, la fluttuazione dello spazio messo a coltura, era infatti considerata all’ordine del giorno, trattandosi di luoghi dal clima estremo e con un andamento che può produrre eventi catastrofici. La grande adattabilità alla contingenze meteorologiche, era caratteristica delle tecniche derivate dalle conoscenze tradizionali. Oggi, lo sfruttamento incontrollato della falda acquifera profonda tramite pozzi individuali, l’abbandono delle gallerie drenanti e di tutti quei sistemi che ricavano acqua per condensazione e capillarità dai micro-flussi nel terreno o da falde superficiali, o dal letto degli wadi, configurano una situazione assai diversa in molte Oasi. Tutto ciò sommandosi alla perdita di biodiversità e di varietà nella produzione agricola dovute alla monocoltura. Il risultato non è solo un danno fisico, visibile nelle Oasi minacciate dall’insabbiamento, ma anche culturale, collegato alla perdita di competenze specifiche nella gestione dell’economia dell’Oasi Ouled Said Oasis, Adrar, Algeria George Steinmetz Mohammed Baza, nella foto, è occupato in lavori di manutenzione nel punto di adduzione di 3 foggara all’interno dell’Oasi. E’ il sistema idrico di gallerie drenanti sotterranee, qui costituito da 5 foggara in totale. Baza si trova all’uscita del flusso di 3 gallerie, dove sono visibili le 3 pietre a forma di pettine, chiamate kesria. Vengono utilizzate per smistare l’acqua, secondo le quote di proprietà originarie e la convogliano nelle canalette di terra. Il flusso viene ulteriormente suddiviso più avanti, in base ai cambiamenti col tempo intervenuti nelle quote di proprietà dell’acqua, prima di arrivare alle parcelle individuali per l’irrigazione. Scomparsa delle aree di uso comunitario dedicate alla pastorizia Quando, per motivi diversi, va in crisi l’organizzazione sociale e produttiva dell’Oasi, si riducono o scompaiono del tutto i terreni di proprietà collettiva riservati all’uso comunitario. Si tratta di aree che vengono destinate alla pastorizia in zone limitrofe agli abitati. Le mandrie costituiscono una risorsa per l’economia locale, ma sono costrette in spazi sempre più limitati, provocando inevitabilmente gravi danni alla flora e contribuiscono all’impoverimento dell’ambiente naturale. Si perdono così anche quelle aree di sosta e di pascolo che gli abitanti dell’Oasi riservano all’allevamento nomade Tchirozerine, Agadez, Niger Alissa Descotes Toyosaki Una madre e i suoi due figli, con la mandria di zebu e gli asini carichi delle suppellettili per l’accampamento, durante una transumanza verso nuovi pascoli. Allevatori e mercanti, il popolo Wodaabe – nomadi di etnia Peul- migra attraverso un vasto territorio che comprende Niger, Nigeria, Tchad e Camerun. In particolare, alla fine della stagione delle piogge a settembre, si spostano nei pascoli tra Tahoua e Agadez. Dato l’alto contenuto salino del foraggio in questi pascoli, gli Woodabe convergono in queste zone da tutti gli angoli del Sahel e sottopongono gli animali alla “cura salata”, il trattamento mineralizzante contro la disidratazione che aiuterà le mandrie a sopportare meglio la stagione asciutta. E’ questa l’occasione in cui – nell’Oasi di Ingall – ha luogo la cerimonia del Geerewol, la grande festa di 6 giorni dove i giovani uomini delle tribù si esibiscono danzando davanti al consesso delle giovani donne. Alla fine, ciascuna delle ragazze sceglierà uno di loro: passeranno insieme la notte o anche tutta la vita. Abbandono del ciclo integrato delle attività produttive L’allevamento a gestione familiare, è uno degli assi portanti del ciclo integrato delle attività produttive nell’Oasi. Si tratta soprattutto di asini, ovini, bovini e caprini, al pascolo nei dintorni del villaggio durante il giorno e al riparo nelle stalle la notte. Sono gli animali che forniscono lo stallatico, utile concime organico, per mantenere la fertilità dei suoli, tradizionalmente molto sfruttati dalla rotazione delle colture. Asini che vengono utilizzati come lavoro nei campi, garantiscono il trasporto di uomini e derrate e soprattutto nel passato, anche l’adduzione dell’acqua dai pozzi. Animali che diventano, in caso di necessità, un bene rifugio con cui poter fare pronta cassa nel più vicino mercato. Per questi motivi, per l’intera economia dell’Oasi, la progressiva perdita di questa attività in conseguenza dell’emigrazione, della modernizzazione agricola, è un impoverimento sostanziale Oasi di Entkemkemt, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Gregge di capre all’abbeveratoio, in una proprietà agricola collocata sulla riva dello stesso wadi su cui affaccia la grande Oasi di Chinguetti. Nella piccola Oasi, una famiglia coltiva un palmeto e alleva animali, ma non può mandare a scuola i suoi bambini. Da qualche anno, non ci sono più maestre che arrivino fin qui.
HabitatIl grandioso splendore dell’architettura tradizionale e il suo segreto, la terra crudaL’abitato dell’Oasi tradizionale, punto cardine di un paesaggio immutato nei millenni, è un complesso architettonico costruito ad arte secondo criteri di massima funzionalità, per la vita familiare e comunitaria dei suoi abitanti Oasi di Haid al-Jazil, Hadhramawt, Yemen Paul Nevin Appollaiato su un grande masso a 150 mt sopra la valle fluviale preistorica del wadi Do’an – a sovrastare i palmeti e le zone coltivate che costituiscono l’insieme dell’Oasi – il villaggio di Haid al-Jazil appare come un luogo inaccessibile. E’ il risultato dell’ingegnosità degli abitanti che – ancora 500 anni fa – avevano badato a costruire le loro abitazioni più lontano possibile dall’alveo del fiume, evitando così il rischio di inondazioni sempre all’ordine del giorno con le piene del wadi. HabitatC’è un costruire più dannoso di qualunque distruggereL’abitato dell’Oasi tradizionale, punto cardine di un paesaggio immutato nei millenni, è un complesso architettonico costruito ad arte secondo criteri di massima funzionalità, per la vita familiare e comunitaria dei suoi abitanti Wadi Hazar, Empty Quarter, Yemen George Steinmetz Cantiere in abbandono con gli scheletri di alcune costruzioni in cemento, evidentemente inadatte al contesto climatico in pieno deserto. Si tratta di un progetto di sviluppo governativo per la sedentarizzazione di popolazioni beduine. L’abitato dell’Oasi tradizionale, punto cardine di un paesaggio immutato nei millenni, è un complesso architettonico costruito ad arte secondo criteri di massima funzionalità, per la vita familiare e comunitaria dei suoi abitanti Abbandono dei villaggi tradizionali rovina degli antichi insediamenti Nell’Oasi, la perdita della qualità del paesaggio, della sua originaria bellezza, plasmata in una secolare alleanza con la natura, accade per l’esodo massiccio degli abitanti verso nuovi quartieri, che sorgono vicino a quelli tradizionali. Il trasferimento è in larga parte conseguenza di politiche governative, che hanno reso attrattivi i nuovi quartieri fornendoli di servizi. A ciò si aggiunge il cambiamento dei modelli culturali: le case nuove, pur trattandosi di modesti agglomerati cementizi, sono percepite come più desiderabili e prestigiose di quelle tradizionali, diventate il simbolo di arretratezza e povertà. Pratiche locali, consuetudini e cultura materiale del passato vengono dequalificate e perdono dignità. Allo stesso modo cede terreno, a favore di quella mononucleare, l’antica struttura familiare allargata, abituata a convivere in un unico grande edificio. Il più delle volte è solo un’ultima generazione di anziani a rimanere nel villaggio, nella casa ormai prossima al disfacimento. Spariscono perciò, progressivamente, gli antichi manufatti in terra cruda dalla forma compatta, particolarmente adatti al clima desertico. Al loro interno erano sempre garantiti il raffreddamento passivo e l’isolamento termico, ma non c’è più nessuno che operi la necessaria manutenzione annuale. Sono interi fabbricati che si sbriciolano e ne trascinano giù altri. A catena, vanno in polvere i resti di un patrimonio architettonico millenario Djado Oasis, Bilma, Agadez, Niger George Steinmetz Rovine dell’antica cittadella medievale di Djado, che fu un tempo tappa importante sulle rotte commerciali verso Libia, Algeria e Chad. Oggi è un insieme di costruzioni in disfacimento in pietra e terra cruda, che svettano sul palmeto dell’Oasi. La popolazione semi-sedentaria dell’Oasi oggi è ridotta a meno di 1000 persone, ma stagionalmente i Toubu – dalla vicina città di Chirfa – si insediano una volta l’anno per la raccolta del dattero, ritenuto il migliore di tutto il Niger. I laghi salati che la circondano, in secca fino alla stagione più fresca, si riempiranno senza piogge, solo con l’acqua in risalita dalla falda. Tutta la zona rimane comunque di grande interesse per i suoi siti preistorici assolutamente intatti, simili a quelli del Tassili n’Ajjer, che non sono mai stati oggetto di scavi archeologici. Abbandono dei villaggi tradizionali rovina degli antichi insediamenti Nell’Oasi, la perdita della qualità del paesaggio, della sua originaria bellezza, plasmata in una secolare alleanza con la natura, accade per l’esodo massiccio degli abitanti verso nuovi quartieri, che sorgono vicino a quelli tradizionali. Il trasferimento è in larga parte conseguenza di politiche governative, che hanno reso attrattivi i nuovi quartieri fornendoli di servizi. A ciò si aggiunge il cambiamento dei modelli culturali: le case nuove, pur trattandosi di modesti agglomerati cementizi, sono percepite come più desiderabili e prestigiose di quelle tradizionali, diventate il simbolo di arretratezza e povertà. Pratiche locali, consuetudini e cultura materiale del passato vengono dequalificate e perdono dignità. Allo stesso modo cede terreno, a favore di quella mononucleare, l’antica struttura familiare allargata, abituata a convivere in un unico grande edificio. Il più delle volte è solo un’ultima generazione di anziani a rimanere nel villaggio, nella casa ormai prossima al disfacimento. Spariscono perciò, progressivamente, gli antichi manufatti in terra cruda dalla forma compatta, particolarmente adatti al clima desertico. Al loro interno erano sempre garantiti il raffreddamento passivo e l’isolamento termico, ma non c’è più nessuno che operi la necessaria manutenzione annuale. Sono interi fabbricati che si sbriciolano e ne trascinano giù altri. A catena, vanno in polvere i resti di un patrimonio architettonico millenario Oasi di Ghadames, Tripolitania, Libia Reza Deghati Un’immagine racconta il declino di una parte della città storica, dei suoi edifici in terra cruda e pietra – nonostante la rivitalizzazione turistica antecedente alla caduta di Mu’ammar Gheddafi. E’ l’inevitabile conseguenza dell’abbandono da parte dei suoi abitanti, indotti a spostarsi in quartieri limitrofi da politiche governative, alla fine degli anni ’70. Abitanti che mantengono però un grande attaccamento alla Medina, famosa per la ricercatezza della sua architettura e l’eleganza delle decorazioni interne alle sue case. Lo testimoniano restaurando, quando è possibile, gli edifici di loro proprietà, e tornando ad abitarli in estate. Nuove costruzioni alterazione della qualità del paesaggio I cambiamenti economici degli ultimi decenni hanno dato impulso all’emigrazione, contribuendo a svuotare gli antichi villaggi nelle Oasi, abbandonati anche sull’onda di un cambiamento nei bisogni, indotto da nuovi modelli di riferimento culturale. Chi resta, se può scegliere, risiede nei nuovi quartieri cresciuti grazie all’espansione immobiliare. La moderna edilizia ha quindi profondamente alterato l’aspetto di tante Oasi, avendo completamente perso i riferimenti alla tradizione riguardo ai caratteri tipologici, morfologici e costruttivi. Di conseguenza l’articolazione degli abitati non prevede più gli spazi comuni dedicati agli incontri di gruppo che erano parte della vita della collettività. Si impone così, di fatto, un cambiamento nei rapporti sociali sui quali si reggeva il governo della comunità. Il cambiamento è radicale anche per quanto riguarda le tecnologie che vengono adottate e la scelta di materiali, estranei al contesto culturale e fortemente inadatti al contesto climatico. Il cemento, ad esempio, che rende la vita all’interno delle nuove abitazioni totalmente dipendente dall’uso di condizionatori d’aria. Questo accade nonostante alcuni paesi, come il Marocco, siano oggi dotati di norme edilizie che prevedono costruzioni ecologiche in terra cruda, anche in zona sismica. Fondati sul cemento, i nuovi insediamenti urbani creano oltretutto una domanda energetica che nell’Oasi non è possibile soddisfare. Le famiglie aumentano così la loro dipendenza da costose erogazioni di servizi esterni che niente hanno a che vedere con i principi sui quali si fonda l’esistenza dell’Oasi. Quella tradizione che ha reso possibile la vita umana in condizioni climatiche estreme, all’interno di un eco-sistema capace di auto-rigenerarsi senza esaurire le risorse primarie Siwa Oasis, Western Desert, Egypt Maria Donata Rinaldi Una coppia siede sulle rovine dell’antica cittadella di Shali che è posta al centro dell’Oasi in cima a una piccola altura, oggi sovrastante edifici moderni, cresciuti disordinatamente. In presenza di un costante incremento della popolazione, molte sono infatti le attività edilizie fuori controllo in corso a Siwa, a dispetto della sua importanza storico-culturale e paesaggistica. L’Oasi, che ha vestigia preistoriche, era notissima nell’Antichità per il Tempio di Ammone dove si trovava il celebre Oracolo, universalmente riconosciuto e consultato. Per questo Alessandro Magno – compiendo un pellegrinaggio nel 331 a.C. – affronta infatti una marcia di 600 km in pieno deserto. Aveva bisogno di farsi riconoscere figlio del Dio, per ottenere così la definitiva investitura del suo potere. Nuove costruzioni alterazione della qualità del paesaggio I cambiamenti economici degli ultimi decenni hanno dato impulso all’emigrazione, contribuendo a svuotare gli antichi villaggi nelle Oasi, abbandonati anche sull’onda di un cambiamento nei bisogni, indotto da nuovi modelli di riferimento culturale. Chi resta, se può scegliere, risiede nei nuovi quartieri cresciuti grazie all’espansione immobiliare. La moderna edilizia ha quindi profondamente alterato l’aspetto di tante Oasi, avendo completamente perso i riferimenti alla tradizione riguardo ai caratteri tipologici, morfologici e costruttivi. Di conseguenza l’articolazione degli abitati non prevede più gli spazi comuni dedicati agli incontri di gruppo che erano parte della vita della collettività. Si impone così, di fatto, un cambiamento nei rapporti sociali sui quali si reggeva il governo della comunità. Il cambiamento è radicale anche per quanto riguarda le tecnologie che vengono adottate e la scelta di materiali, estranei al contesto culturale e fortemente inadatti al contesto climatico. Il cemento, ad esempio, che rende la vita all’interno delle nuove abitazioni totalmente dipendente dall’uso di condizionatori d’aria. Questo accade nonostante alcuni paesi, come il Marocco, siano oggi dotati di norme edilizie che prevedono costruzioni ecologiche in terra cruda, anche in zona sismica. Fondati sul cemento, i nuovi insediamenti urbani creano oltretutto una domanda energetica che nell’Oasi non è possibile soddisfare. Le famiglie aumentano così la loro dipendenza da costose erogazioni di servizi esterni che niente hanno a che vedere con i principi sui quali si fonda l’esistenza dell’Oasi. Quella tradizione che ha reso possibile la vita umana in condizioni climatiche estreme, all’interno di un eco-sistema capace di auto-rigenerarsi senza esaurire le risorse primarie Oasis di Chinguetti, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Operai al lavoro fabbricano mattoni impastando cemento e sabbia, a Mali, un nuovo distretto di Chinguetti. In anni recenti molte famiglie hanno abbandonato le tradizionali abitazioni in pietra della vecchia cittadella – famosa per le sue architetture e le sue biblioteche zeppe di antichi manoscritti – trasferendosi in case costruite in cemento, esteticamente molto discutibili e totalmente inadatte al contesto climatico. Scomparsa delle conoscenze artigianali cancellazione dell’identità culturale Nelle Oasi assistiamo alla graduale scomparsa delle competenze tecniche riguardo all’uso di materiali come terra cruda, malta d’argilla e pietra per le murature, legno di palma per le travature e i telai delle finestre. Ciò rischia di rendere impraticabile qualunque progetto di restauro e riqualificazione dei villaggi nelle Oasi, oltre a configurarsi come un’amputazione dell’identità culturale della comunità. Vengono meno le conoscenze legate alla manutenzione degli edifici e di quegli spazi collettivi che garantivano lo svolgersi della vita sociale e delle cerimonie tradizionali. Svanisce il nesso forte, inalterato nei secoli, tra luoghi e cultura. Nuovi attori occupano la scena: centri economici, decisionali o politici che usano logiche dotate di simboli, storia, obiettivi e stili senza alcun riferimento ai valori estetici e spirituali del passato. Con conseguenze, già nel prossimo futuro, che riguardano la sopravvivenza stessa dell’ecosistema Oasi Oasi di Chinguetti, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Un momento della lavorazione della foglia della palma da dattero, per la realizzazione di un rivestimento per soffitti. Gli usi di questa foglia sono molteplici: come recinzioni che creano dune artificiali per l’impianto di nuove colture o per proteggere i villaggi dall’avanzata del deserto; come materiale per coperture che creano l’isolamento termico nelle abitazioni; come pareti divisorie che garantiscono la privacy e la ventilazione. Mancata tutela del patrimonio architettonico nuove forme di controllo sociale Le Oasi Sahariane e Arabiche sono inscritte all’interno di confini politici diversi e con diverse legislazioni di pertinenza, ma per quanto concerne la tutela del loro patrimonio architettonico, sono possibili alcune considerazioni generali. Ad esempio, riguardo all’abbandono degli antichi villaggi. E’ un fenomeno che la politica urbanistica statale ha molto spesso incentivato edificando scuole e alcuni servizi nei nuovi quartieri. Questi sono divenuti poli attrattivi, nonostante la mancanza di spazi deputati per l’incontro degli abitanti e l’insufficienza estetica delle costruzioni, oltre che la carenza funzionale degli edifici dal punto di vista energetico. Si allontanano le popolazioni dai luoghi dove l’architettura rispecchia l’organizzazione sociale comunitaria. Si propone la famiglia mononucleare, chiusa all’interno della singola unità abitativa, come modello di riferimento. La nuova conformazione dello spazio urbano riduce di fatto, oltre che simbolicamente, il potere delle autorità tradizionali, che nel villaggio avevano luoghi deputati per svolgere le loro residue funzioni di governo. Più in generale si nota l’assenza, salvo in alcuni paesi come l’Oman, di una politica statale che abbia come obiettivo la tutela e il recupero del patrimonio storico nelle Oasi. Per chi volesse intervenire a impedire la rovina di questi insediamenti, i problemi spesso sorgono fin dall’inizio. Nei villaggi semi-abbandonati, l‘assenza di un catasto scritto e riconosciuto dallo Stato, che certifichi la proprietà degli immobili fatiscenti o delle aree abbandonate, è spesso un limite invalicabile. Interi isolati scompaiono perciò completamente, aprendo anonimi varchi nell’antico tessuto urbano. Di conseguenza, molto del lavoro che viene effettuato da centri di ricerca internazionali come nel caso di Archiam in Oman, è preliminare all’opera di restauro. Riguarda infatti l’acquisizione di una documentazione attraverso il rilievo architettonico dell’intero contesto urbano e il recupero di informazioni riguardanti le proprietà, anche usando interviste con gli ultimi abitanti come strumento di indagine Oasi di Ghardaïa, Algeria Yann Arthus Bertrand E’ l’ora di ricreazione in una scuola femminile, sulla terrazza costruita in mattoni di cemento. Fondata nel 1048 e famosa per la sua architettura tradizionale, Ghardaïa ha largamente ispirato l’opera di Le Corbusier, il grande architetto del Ventesimo secolo. L’integrità del suo patrimonio storico non è per questo meno in pericolo, come sempre accade quando il cemento sostituisce i materiali della tradizione. Ghardaïa è la capitale delle cinque città della pentapoli dello M’Zab e deve la sua origine a berberi di fede ibadita, corrente religiosa islamica che costituisce una “terza via” tra sunniti e sciiti. La fede di queste comunità risale quindi agli albori dell’Islam e qui, in epoca medievale, esse diedero vita a una società contraddistinta da principi egualitari, con istituzioni secolari e religiose proprie, queste ultime ancora in essere. Mancata tutela del patrimonio architettonico nuove forme di controllo sociale Le Oasi Sahariane e Arabiche sono inscritte all’interno di confini politici diversi e con diverse legislazioni di pertinenza, ma per quanto concerne la tutela del loro patrimonio architettonico, sono possibili alcune considerazioni generali. Ad esempio, riguardo all’abbandono degli antichi villaggi. E’ un fenomeno che la politica urbanistica statale ha molto spesso incentivato edificando scuole e alcuni servizi nei nuovi quartieri. Questi sono divenuti poli attrattivi, nonostante la mancanza di spazi deputati per l’incontro degli abitanti e l’insufficienza estetica delle costruzioni, oltre che la carenza funzionale degli edifici dal punto di vista energetico. Si allontanano le popolazioni dai luoghi dove l’architettura rispecchia l’organizzazione sociale comunitaria. Si propone la famiglia mononucleare, chiusa all’interno della singola unità abitativa, come modello di riferimento. La nuova conformazione dello spazio urbano riduce di fatto, oltre che simbolicamente, il potere delle autorità tradizionali, che nel villaggio avevano luoghi deputati per svolgere le loro residue funzioni di governo. Più in generale si nota l’assenza, salvo in alcuni paesi come l’Oman, di una politica statale che abbia come obiettivo la tutela e il recupero del patrimonio storico nelle Oasi. Per chi volesse intervenire a impedire la rovina di questi insediamenti, i problemi spesso sorgono fin dall’inizio. Nei villaggi semi-abbandonati, l‘assenza di un catasto scritto e riconosciuto dallo Stato, che certifichi la proprietà degli immobili fatiscenti o delle aree abbandonate, è spesso un limite invalicabile. Interi isolati scompaiono perciò completamente, aprendo anonimi varchi nell’antico tessuto urbano. Di conseguenza, molto del lavoro che viene effettuato da centri di ricerca internazionali come nel caso di Archiam in Oman, è preliminare all’opera di restauro. Riguarda infatti l’acquisizione di una documentazione attraverso il rilievo architettonico dell’intero contesto urbano e il recupero di informazioni riguardanti le proprietà, anche usando interviste con gli ultimi abitanti come strumento di indagine Oasi di Ghadames, Tripolitania, Libia Reza Deghati Situata a 500 km a sudovest di Tripoli, all’intersezione delle frontiere con Algeria e Tunisia – abitata fin dalla Preistoria – l’Oasi copre 225 ettari e la sua Medina ne occupa 10. L’autenticità e la funzionalità dell’impianto urbanistico sono testimoniate dall’uso che ne fanno molti dei suoi abitanti – trasferiti d’autorità in case limitrofe in cemento alla fine degli anni ’70 – ma che tornano nella città storica quotidianamente e la abitano stabilmente durante i mesi estivi. In questa immagine, tre uomini sono a convegno, seduti sulle panche in muratura, in uno dei passaggi coperti dove la terra cruda – il materiale usato per le costruzioni – conserva temperature vivibili anche nelle giornate più torride. Come l’intero insediamento, questi sono luoghi studiati per lo svolgersi della vita della comunità, che sapeva proteggersi all’esterno – fortificando le sue mura e chiudendo le porte di accesso – ma si apriva all’interno, alla coabitazione tra famiglie di ogni ceto in spazi deputati, garantendo così una forte coesione sociale.