Le Origini L’Africa ha un’enorme massa sviluppata su 2 emisferi, abbraccia l’Equatore ed è estesa in zone climatiche dalle caratteristiche disomogenee. Per questa ragione, durante gli sconvolgimenti che hanno caratterizzato la storia geologica del pianeta, la gigantesca zolla tettonica ha sempre avuto al suo interno aree con condizioni climatiche favorevoli alla vita, facilmente raggiungibili per mezzo di migrazioni terrestri. In Africa, in quel corridoio naturale di collegamento tra climi e regioni diverse che è la Rift Valley, una profonda depressione raccoglie fiumi e acqua dolce. È fiancheggiata da alte catene montuose e congiunge, con la sua direttrice per 6000 km, il Mozambico agli altopiani siriani. Lungo questa frattura geologica vivevano i nostri primi antenati, gli ominidi, 4 milioni di anni fa. L’Europa è ancora stretta nella morsa dei ghiacci, ma l’evoluzione del genere umano era già iniziata in Africa, nella terra originaria dei segni e dei miti. Lago Natron, Rift Valley, Tanzania George Steinmetz L’ombra di un aereo sulle incrostazioni saline che ricoprono la superficie del lago nella Rift Valley Africana. La Rift Valley una è fossa molto profonda, che si estende per 6.000 km in direzione nord-sud, dalla Siria al Mozambico, passando per il Mar Rosso e i grandi laghi africani. L’origine è nella separazione delle placche tettoniche africana e araba che – a partire da 15 milioni di anni fa – ha creato una frattura profonda anche molti chilometri, larga da 30 a 100km. Il lago Natron è un lago salino e in epoca preistorica era un’abbondante riserva di acqua dolce. Oggi, a causa dell’evaporazione, è ridotto a non più di 3 metri di profondità, variabile, comunque, in conseguenza delle piogge. Il lago deriva il suo nome dal Natron, minerale con una grande concentrazione di bicarbonato di sodio, che precipita formando incrostazioni saline quando il suo livello diminuisce e le temperature aumentano fino a 50°. Il colore rosso, che il lago assume in quel periodo, è dovuto ai micro-organismi rosso vivo che le ricoprono. Il Natron, che nell’Antichità veniva utilizzato nelle imbalsamazioni per le sue proprietà disidratanti, rende le acque del lago simili all’ammoniaca, quindi un ambiente particolarmente ostile alla vita. Si tratta invece del più importante luogo di riproduzione e nidificazione, in Africa Orientale, per la specie del Fenicottero minore (Phoeniconaias minor) che si nutre dei suoi micro-organismi acquatici.
Il paradiso perduto Il Sahara non è sempre stato un deserto, come raccontano le immagini dipinte nelle caverne preistoriche in Libia o nel Tassilj n’Ajjer algerino, a partire dal 10.000 a.C., dopo la fine dell’ultima glaciazione. Montagne coperte di rigogliose foreste, solcate da grandi fiumi, percorse da animali di varia specie, elefanti, leoni, giraffe, un habitat che lo scioglimento dei ghiacci ha reso umido e temperato. Sono questi i luoghi che le incisioni rupestri rivelano, mostrando ogni passo dell’avventura umana, a partire dal tardo Paleolitico. Vivono in queste zone popoli di cacciatori-raccoglitori dalla vita erratica, che si spostano secondo le stagioni e così facendo trovano cibo in abbondanza. Hanno perciò a disposizione molto tempo libero, che dedicano alle pratiche religiose e all’arte, dando origine a quell’esplosione figurativa paleolitica e poi neolitica, che durerà 7000 anni. Wadi In Djeran, Illizi, Tadrart, Algeria Jacqueline Macou Incisioni del primo Neolitico, nei pressi dell’Oasi di Djanet. Sulla parete di arenaria sono raffigurate una figura umana, alcune giraffe e un esemplare della specie di ovini, ormai estinta, conosciuta come “bubalus antiquus”. Lungo il margine dell’incisione si intravedono scritte più recenti, in lingua Tuareg tifinagh.
La fine di un mondo Costretti a organizzare nuovi metodi per la raccolta dell’acqua, che il disgelo ha smesso di garantire a profusione, a partire dall’8000 a.C., i popoli nomadi del Nord Africa e della Penisola arabica dovranno scegliere una vita sedentaria e costruirsi i primi ripari stabili. Selezionare piante e domesticare animali, coltivare, allevare, modificare in funzione produttiva lo spazio naturale. E’ questo il cambiamento che si realizza durante i millenni del periodo Neolitico. Conoscenze sofisticate, necessarie per la sussistenza di comunità che diventano sempre più ampie, si stratificano e si consolidano, ma in presenza di condizioni climatiche sempre più avverse. La terra, infatti, torna a scaldarsi a poco a poco, mentre l’uomo neolitico assiste e in parte contribuisce, alla distruzione dell’antico paradiso post-glaciale. Il deserto prenderà il sopravvento intorno al 4.000 a.C., al tempo in cui i pascoli avranno sostituito le foreste, quando la gran parte delle acque superficiali é ormai prosciugata o inghiottita sottoterra. È così che il suolo, non più protetto dagli alberi, sottoposto all’aumento delle temperature, all’azione erosiva del vento, si trasforma in un insieme di rilievi denudati, inframmezzato da un ammasso di sabbie sterili. Oasi di Djanet, Tassili n’Ajjer, Sahara, Algeria Yann Arthus Bertrand Tomba preistorica a recinto circolare del periodo Neolitico, che si intende inizi 8.000 anni prima di Cristo e si concluda con l’invenzione della scrittura, databile intorno al 3.400 a.C. Nel Tassili n’Ajjer, questo tipo di sepolture è particolarmente diffuso e le più antiche risalgono a 5.500 anni fa. Scavate sulle colline, sono visibili da lontano: un primo cerchio di pietre circonda il tumulo, sotto il quale si trova la camera funeraria, un secondo cerchio, recinta l’intero edificio. Vi si trovano sepolti solo gli uomini, sdraiati su un fianco, con il volto orientato verso oriente.
La civiltà delle Oasi Sfuggite al disastro ecologico, conseguenza del mutamento climatico e dello sfruttamento intensivo delle risorse ambientali, a partire dal 4000 a.C., le comunità tardo neolitiche sono forzate ad apprendere dall’errore originario. Affineranno allora nuove pratiche per nuovi sistemi di sopravvivenza ed è così, sotto il segno di una catastrofe primordiale che ha in sé il germe della rinascita, che avrà origine la civiltà delle Oasi. Sono piccole comunità che rimangono a presidiare vasti territori, mentre imponenti gruppi umani si spostano dal Sahara, al bacino del Nilo, dal deserto arabico, in Mesopotamia e si insediano nelle valli dei grandi fiumi. Qui si affermeranno le grandi organizzazioni statali sumera e egizia, con tecniche di gestione dell’acqua a grande scala, chiamate per questo, società idrauliche. Oasi di Sidi Ali Ou Brahim, Adrar, Algeria Reza Deghati La cerimonia del tè, nel Sahara, è una tradizione, un’arte e una filosofia, strettamente collegata alle regole di ospitalità che caratterizzano la cultura delle Oasi. Può essere perciò presa a emblema di una civiltà che oltrepassa i confini dei moderni stati nazionali, rimanendo fedele al dettato della tolleranza e della massima accoglienza nei confronti dello straniero. La cerimonia del tè deve svolgersi, secondo consuetudine, per un’ora e mezza. In questo ambito la ritualità dei gesti attiene a un preciso codice estetico e lo scambio tra gli astanti avviene all’interno del cerchio magico di un’intimità creata dall’occasione. Poesie, canti e proverbi testimoniano, infatti, del piacere e della serenità procurati da una seduta dedicata a bere il tè, sia tra le popolazioni nomadi, che tra i sedentari. “Il primo tè è amaro come la vita, il secondo forte come l’amore, il terzo dolce come la morte”, questo il proverbio arabo che indica il numero di volte in cui l’azione di bere il tè dovrà essere ripetuta, per non mancare di rispetto all’ospite. Eppure il tè verde, che insieme alle foglie di menta è alla base dell’infusione, è una “scoperta” recente per questi popoli: arriva per la prima volta in Nord Africa nel 1854, quando alcune navi da carico inglesi sono costrette a fermarsi nel porto di Tangeri, a causa della guerra di Crimea. Inizia quindi dal Marocco la diffusione di una mercanzia che introdurrà un cambiamento epocale nelle abitudini quotidiane delle popolazioni sahariane. Dopo esser rimasta a lungo una bevanda appannaggio delle classi privilegiate, il tè alla menta verrà adottato a ogni livello sociale.
Società idrauliche Nell’età del Bronzo, intorno al 3000 a.C., a partire dall’esperienza di costruzione degli argini e dei canali necessari per irrigare e fertilizzare i loro territori, le civiltà egizia e sumera, innalzano le loro monumentali architetture sui sedimenti alluvionali di limo, loess e sabbia, lungo i bacini fluviali. E’ la terra di scavo a fornire la terra cruda delle prime piramidi, un’evoluzione diretta, sia in Africa che in Mesopotamia, delle tecniche neolitiche di costruzione di argini e terrapieni. Sono proprio le grandi opere, a richiamare quella manodopera che fornirà la base sociale degli antichi regni e giustificheranno sia l’impianto della burocrazia amministrativa, che la centralizzazione del potere: un modello economico-sociale totalmente alternativo a quello della civiltà delle Oasi. Oasi di Fayyum, Egitto Yann Arthus Bertrand La Piramide di Meidum si trova in pieno deserto, vicino all’Oasi di Al-Fayyum, al margine della sua zona coltivata. Il monumento fu probabilmente eretto da Snefru, primo re della Quarta Dinastia durante l’Antico Regno (2613 a.C. – 2589 a.C.) anche se non fu mai utilizzato come tomba reale. Potrebbe rappresentare il punto di transizione tra le prime piramidi a gradoni e i monumenti di Giza a forma di scalinata gigante. Oggi sono visibili ed emergono dal cumulo di detriti, come una torre enorme e bizzarra, solo tre degli otto gradoni originali.
Le prime Oasi Attorno alle depressioni, i bacini degli antichi laghi del disgelo seguito all’ultima glaciazione – enormi invasi divenuti paludi salmastre – l’umanità del tardo Neolitico si insedia sugli altipiani. Lì, nelle grotte dove trova riparo, si usa il metodo della percolazione per ricavare acqua bevibile e si iniziano a coltivare piccoli giardini. Qui fa la sua comparsa la palma da dattero, così come è raffigurata nelle immagini rupestri del Tassili n’Ajjer. Prima del 3000 a.C. la Phoenix Dactylifera – fondamento dell’Oasi e della sua economia agro-pastorale – è sicuramente presente anche lungo le coste del golfo Persico. Nell’antica Dilmun, oggi Bahrein e in Oman, l’antico paese di Magan, la palma da dattero cresce in aree artificialmente terrazzate e irrigate, antichi sistemi di captazione delle acque rendono possibili le prime forme di agricoltura. Certamente utilizzati fin dal 1000 a.C. per la raccolta idrica, gli aflaj sono gallerie drenanti munite di pozzi d’areazione e di canali per la distribuzione, tuttora in funzione nelle Oasi omanite con una rete estesa per 2.900 km. Un sistema molto simile, forse ancora antecedente, si trova in Iran, conosciuto come qanat. Allo stesso modo anche in Egitto, verso la metà del 2000 a.C., le Oasi del deserto occidentale sono già luoghi fertili di insediamento stabile, considerate il granaio dell’Antico Regno. Nelle pagine delle Storie di Erodoto, in viaggio in Egitto nel 440 a.C., scopriremo che le Oasi erano già note ed erano già state identificate con un nome preciso, wehe. Oasi di Maqabil, Al Dhahira, Oman Ahmed Al-Shukaili Dettaglio costruttivo di una tomba in pietra della necropoli di Bat, su un altura nelle vicinanze dell’Oasi. Si tratta di un insieme monumentale archeologico del Terzo Millennio a.C. che comprende – con Al-Khutm e Al-Ayn – insediamenti rurali e sistemi di irrigazione. Qui si trovano le prime applicazioni delle tecniche di organizzazione produttiva che verranno poi sviluppate nelle Oasi, dalle comunità sahariane e arabiche.
Come nasce l’Oasi Tutto inizia col seme di una palma da dattero e la mano dell’uomo. Un piccolo scavo raccoglie umidità, il seme attecchisce, circondato da rami secchi che lo difendono dalle sabbie, irrigato con acque raccolte e drenate attraverso ingegnosi sistemi dai bacini idrografici del deserto, le tante e diverse falde sotterranee che i popoli delle Oasi hanno saputo individuare e utilizzare. Si crea così l’effetto Oasi, un processo favorevole alla vita che si auto-rigenera, grazie alla coesistenza di organismi diversi, assecondando le leggi della natura. Anche l’azione dei venti, sapientemente direzionata, crea la duna che protegge la nicchia fertile, adatta alla vita. La pianta stessa fa scudo dai raggi del sole, concentra il vapore acqueo, attira gli insetti, produce la materia biologica, genera il suolo e l’humus, da cui a sua volta trae nutrimento. Oasi di Adjir, Adrar, Algeria George Steinmetz Coltivazione della palma da dattero nelle depressioni artificiali chiamate ghout. E’ il celebre sistema di agricoltura tradizionale sahariana che non ha bisogno di irrigazione – molto diffuso in Algeria e Niger – quando la falda acquifera è vicina alla superfice.
Il modello dello scarabeo del deserto Lo scarabeo sale sulla duna per dissetarsi captando l’umidità della brezza serale che si condensa sulla corazza, fornita di piccole protuberanze. Da lì, minuscole gocce d’acqua scivoleranno fino ad arrivare nella sua bocca e il miracolo di calmare la sete sarà compiuto. Come lo scarabeo, piccole comunità nelle Oasi, regolate da autorità patriarcali, religiose o consuetudinarie e dirette dall’assemblea degli anziani, mettono a profitto ingegnose pratiche di captazione dell’acqua. A fronte di risorse idriche scarse o basate sugli apporti apparentemente immateriali dell’umidità, della brina, di precipitazioni occulte o quasi inesistenti, la gestione condivisa degli abitanti del villaggio, era in grado di utilizzarle al meglio, riuscendo a non esaurire le riserve e a farle rigenerare. Oasi di Terjit, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Lo scarabeo del deserto è un insetto in grado di captare l’umidità atmosferica che si condensa sulla sua corazza. Per questo può essere preso a emblema delle sapienti tecniche di captazione dell’acqua in uso nelle Oasi. La specie era molto diffusa nell’Antico Egitto e adorata come una divinità. Non a caso veniva rappresentata mentre spinge il sole attraverso il cielo e celebrata come simbolo delle forze della natura, in continuo movimento e trasformazione, sempre in grado di rigenerarsi.
Quale Oasi? Nel Sahara e nelle vaste estensioni desertiche d’Arabia, le Oasi, con i loro villaggi all’interno o al limitare dei palmeti, si trovano in luoghi geo-morfologicamente diversi. Accomunate dall’aridità del suolo, dal clima torrido, con la concomitanza di una forte escursione termica tra il giorno e la notte, le Oasi esistono grazie all’acqua, ai molteplici sistemi usati per captarla, drenarla, raccoglierla. Irrigare e far crescere la palma da dattero, creare l’effetto Oasi, in questo modo garantire l’instaurarsi del ciclo vitale, è impresa alla quale, nei millenni, popolazioni lontane tra loro si sono dedicate con la stessa sapienza. Sugli altipiani o su terrazzamenti rocciosi nelle Oasi di montagna, dove le gallerie scavate dall’uomo portano in superficie il residuo delle piogge o dello scioglimento delle nevi; nelle Oasi di wadi, adagiate lungo il percorso di fiumi preistorici – incastonate tra maestose pareti di roccia o sui bordi dell’alveo ghiaioso – dove l’acqua s’infiltra a seguito di piene dalla cadenza imprevedibile, recuperata attraverso i pozzi o forme diverse di adduzione; nelle Oasi di erg – in mezzo al grande mare di sabbia – dove il sistema idrico drena i micro-flussi degli acquiferi fossili e si coltivano i palmeti muovendo artificialmente le dune, dentro a scavi profondi come piccoli crateri; nelle Oasi di sebkha – sul bordo di estese depressioni – le rive di antichi laghi oggi salatissimi o del tutto disseccati, dove a volte scaturiscono decine di sorgenti di acqua dolce o più spesso ampi cunicoli, muniti di pozzi di areazione, traggono acqua per i villaggi e l’uso agricolo. Abitare il deserto, la lezione dell’Oasi. Oasi di Siwa, Matrouh, Egitto Yann Arthus Bertrand Vista aerea del lago Birket Siwa, con al centro l’isola dove si notano le vestigia di un piccolo insediamento. Cristalli di sale, in trasparenza, modificano il colore dell’acqua. L’Oasi di Siwa è un luogo di contrasti: da una parte altissime dune di sabbia, a ovest della cittadina, al centro tre grandi laghi salati e sparse ovunque, più di un centinaio di sorgenti naturali di acqua dolce. Un insieme unico di caratteristiche che ha portato l’uomo a insediarsi qui, intorno a 12.000anni fa. L’Oasi oggi ha 25.000 abitanti e si trova al centro della depressione del Qattara, nel deserto occidentale egiziano. Gran parte è sotto il livello del mare. Aree desertiche in forte pendenza la chiudono a nord e a sud. A ovest la depressione si apre sul Grande Mare di Sabbia, il deserto libico con suoi 72.000 km quadrati di grandi dune. Le tante sorgenti che forniscono acqua nell’Oasi hanno origine nell’Acquifero Nubiano: è l’immensa riserva di acqua fossile, la più grande del mondo, che si è formata 30.000 -50.000 anni fa e si estende anche sotto Libia, Sudane e Chad.
Giardini del deserto Eliminando la separazione tra orto produttivo e giardino di piacere, i terreni coltivati nel deserto si chiamano giardini. Ombreggiate particelle di terreno, che la tradizione agricola nelle Oasi, esplorando la generosità e le insidie della natura, ha poi minuziosamente organizzato in 3 livelli. La palma, più sotto gli ulivi o gli alberi da frutto, ancora più in basso, secondo le stagioni, gli ortaggi, i cereali, i foraggi per gli animali. Così nasce l’inaspettato argine verde all’invadenza delle sabbie, coltivato mettendo a frutto il suo microclima. Oasi di Tinghir, Souss – Massa – Draâ, Marocco Bruno Barbey Un’immagine racconta i 3 livelli con cui è organizzata l’agricoltura tradizionale nell’Oasi. Al margine del villaggio costruito in terra cruda si notano: la palma da dattero al primo, gli ulivi e gli alberi da frutto al secondo livello , ancora più in basso, gli ortaggi e il foraggio per gli animali.
Palma da dattero, albero benedetto Con i piedi nell’acqua e la testa nel fuoco, solo così, secondo un proverbio arabo, cresce la palma da dattero nei climi caldi e secchi, fino ad arrivare a 30 metri, tollerando suoli salini. Fondamento dell’ecosistema Oasi, oggi presidio contro la desertificazione di intere aree nel mondo. Tra cielo e sabbia si apre la chioma sotto la quale, nella tradizione condivisa da musulmani e cristiani, Maria di Nazareth dette alla luce Gesù, cibandosi poco prima, di datteri freschi. E’ grazie a questo albero benedetto, la Phoenix Dactylifera, che l’uomo ha potuto abitare il deserto, creare fertile humus all’ombra della sua chioma. E’ grazie ai suoi frutti, altamente energetici e vitaminici, facili da conservare e trasportare lungo le antiche vie carovaniere trans –arabiche e trans-sahariane, che ha potuto attraversarlo. Sono alcune migliaia le varietà della palma da dattero, della stessa specie il cui primo ritrovamento, in Mesopotamia, risale al 4000 a.C.. Meglio propagate per talea, in produzione dopo 4 o 5 anni, le palme da dattero si dice abbiano “tanti possibili utilizzi quanti sono i giorni dell’anno”: legno e fogliame come combustibile e materiale da costruzione, parti giovani e tenere del tronco per l’alimentazione, crude o essiccate per ottenere farine, dai semi del dattero olio per saponi, se macinati e tostati, persino una bevanda simile al caffè. E ancora, oltre al dattero essiccato che viene largamente consumato e apprezzato, dal dattero fresco si ottengono confetture, zucchero, vino. Alberi che arrivano fino a 100 anni e che dell’uomo hanno bisogno per dare più frutti. Per questo, ogni anno tra marzo e giugno, gli agricoltori nell’Oasi ripetono la pratica della fecondazione. Sostituiscono il vento, appollaiati su altissime scale e arrivano alla sommità di 40 palme femminili per spargere il polline di un’unica palma maschio. E’ così che ogni pianta potrà dare il massimo, 60 kg, e la grande famiglia allargata che, per due mesi insieme ai proprietari partecipa alla raccolta, potrà dividersi i datteri, di cui una parte, secondo consuetudine, è per i poveri. Oasi di Az Za’Faran, Al-Hudayda, Yemen Abduljabbar Zeyad Utilizzando la cintura tradizionale, un giovane agricoltore sale sulla palma per fare la raccolta dei datteri. E’ un’attività che richiede abilità d’acrobata e resistenza fisica, dato che si svolge mediamente a un’altezza di 15 metri. Prendersi cura di 100 esemplari di piante – tanti sono quelli normalmente in carico a ciascun coltivatore – necessita poi di ulteriori competenze. Ci sono almeno una decina di interventi tecnici, come ad esempio l’impollinazione e la potatura, da espletare durante il corso dell’anno. E’ chiaro che si tratta di un mestiere indispensabile per l’economia, l’equilibrio ecologico e la sopravvivenza stessa dell’Oasi, che oggi è però oggetto di una crescente disaffezione da parte dei giovani. Molti lo giudicano anche troppo pericoloso. E’ utile sapere che l’Associazione algerina BEDE ha messo a punto un progetto specifico, destinato a ridurre i rischi di infortunio legati alla manutenzione delle palme da dattero. Palma da dattero, albero benedetto Con i piedi nell’acqua e la testa nel fuoco, solo così, secondo un proverbio arabo, cresce la palma da dattero nei climi caldi e secchi, fino ad arrivare a 30 metri, tollerando suoli salini. Fondamento dell’ecosistema Oasi, oggi presidio contro la desertificazione di intere aree nel mondo. Tra cielo e sabbia si apre la chioma sotto la quale, nella tradizione condivisa da musulmani e cristiani, Maria di Nazareth dette alla luce Gesù, cibandosi poco prima, di datteri freschi. E’ grazie a questo albero benedetto, la Phoenix Dactylifera, che l’uomo ha potuto abitare il deserto, creare fertile humus all’ombra della sua chioma. E’ grazie ai suoi frutti, altamente energetici e vitaminici, facili da conservare e trasportare lungo le antiche vie carovaniere trans –arabiche e trans-sahariane, che ha potuto attraversarlo. Sono alcune migliaia le varietà della palma da dattero, della stessa specie il cui primo ritrovamento, in Mesopotamia, risale al 4000 a.C.. Meglio propagate per talea, in produzione dopo 4 o 5 anni, le palme da dattero si dice abbiano “tanti possibili utilizzi quanti sono i giorni dell’anno”: legno e fogliame come combustibile e materiale da costruzione, parti giovani e tenere del tronco per l’alimentazione, crude o essiccate per ottenere farine, dai semi del dattero olio per saponi, se macinati e tostati, persino una bevanda simile al caffè. E ancora, oltre al dattero essiccato che viene largamente consumato e apprezzato, dal dattero fresco si ottengono confetture, zucchero, vino. Alberi che arrivano fino a 100 anni e che dell’uomo hanno bisogno per dare più frutti. Per questo, ogni anno tra marzo e giugno, gli agricoltori nell’Oasi ripetono la pratica della fecondazione. Sostituiscono il vento, appollaiati su altissime scale e arrivano alla sommità di 40 palme femminili per spargere il polline di un’unica palma maschio. E’ così che ogni pianta potrà dare il massimo, 60 kg, e la grande famiglia allargata che, per due mesi insieme ai proprietari partecipa alla raccolta, potrà dividersi i datteri, di cui una parte, secondo consuetudine, è per i poveri. Oasi di Chinguetti, Adrar, Mauritania Agron Dragaj Datteri su un ramo di palma, al primo stadio della crescita. I datteri hanno quattro fasi di maturazione, conosciute in tutto il mondo con i loro nomi arabi kimri (acerbo) khlal (croccante) rutab (morbido, maturo) tamr (essiccato al sole).
Comunità idro-genetiche “Miniere d’acqua” è la definizione appropriata per tutti quei sistemi che, nelle Oasi, richiamano le tecniche preistoriche dell’idro-genesi, la creazione di acqua. Frutto di un’antica sapienza ambientale, le “miniere d’acqua” utilizzano molteplici metodi di raccolta e per far questo si creano dispositivi, a volte difficilmente riconoscibili, capaci di trarre umidità anche dall’atmosfera. Imponenti tracciati sotterranei per gallerie drenanti, scavo di argini, canali adduttori, immensi reticoli di fossati, terrazzamenti lungo gli wadi, tutte queste opere si realizzano storicamente attraverso la necessaria cooperazione dell’intera comunità. Da qui, fin dalle origini dell’insediamento, non solo, localizzazioni obbligate dai percorsi d’acqua per la costruzione di abitazioni e l’impianto dei palmeti, ma anche la necessità di patti comuni che regolino ogni attività: giorno e durata dell’irrigazione, scelta e rotazione delle colture più adatte a fronteggiare l’aridità, persino la regolamentazione dei tempi di lavoro, sia privato che collettivo, nelle aree agricole. Oasi di Adrar, Adrar, Algeria Pietro Laureano Il maestro d’acqua, colui che la comunità ha incaricato di gestire l’ingegnoso sistema di approvvigionamento e distribuzione idrica nell’Oasi, mostra la piastra perforata in rame, hallafa. E’ questo lo strumento che contiene l’unità di misura di riferimento con cui vengono verificati i flussi allo sbocco in superficie della grande foggara, la galleria drenante sotterranea che corre in pieno deserto.
Ecosistema-deserto Il deserto è un modello ecologico preciso, che si afferma in una specifica situazione climatica, con le sue leggi, le sue attività biologiche e un equilibrio che le comunità delle Oasi sanno come rispettare e mantenere. L’instaurarsi del deserto è il frutto di un ciclo naturale, ha seguito i lunghissimi tempi geologici della storia del pianeta e ha conservato un habitat ricco di biodiversità. La desertificazione, responsabilità dell’uomo, è invece un cambiamento rapido, al quale l’insieme biologico e fisico del pianeta non ha tempo di adeguarsi. Il degrado che si produce è totale, senza che possa in alcun modo ristabilirsi un ciclo vitale con nuove leggi. Accade quindi che il deserto sia soggetto a desertificazione perché quel paesaggio di straordinaria forza, apparentemente immutabile, è in realtà come tutti gli ecosistemi, un ambiente fragile e ogni azione umana che non sappia trovare la sua misura, persino in quel contesto, avrà effetti duraturi e devastanti. Oasis di M’Hamid El Ghizlane, Souss-Massa-Drâa, Marocco Rosa Frei Euphorbia Guyoniana, vegetazione spontanea sulle dune dell’Erg Lihoudi, un esempio di quella flora che comprende specie effimere, annuali o perenni, alcune perfettamente adattate alle condizioni di aridità, altre con cicli di vita molto brevi, legati all’arrivo di sporadiche piogge.
Sahara Vi sono molti deserti, in Africa e nel mondo, ma il Sahara, in qualche modo, li rappresenta tutti. Copre un quarto dell’Africa, corre per 5000 km dall’Atlantico al Mar Rosso e per 2000 km dall’Atlante al Sahel, la sua sponda meridionale. È un deserto caldo, dove le temperature superano anche i 50° C, ma nelle notti d’inverno possono scendere sottozero. Per l’assenza di vegetazione, la sua superficie, esposta alla violenza degli agenti atmosferici, mostra la brutalità dell’erosione sulla terra. Sole, vento, escursione termica, vapore, la loro combinazione ha l’effetto di dilatare e poi disgregare le rocce più dure. Si producono così le sabbie, grani silicei affidati al vento, capaci di distruggere ogni cosa. Si creano così immense dune, quelle che in epoca preistorica hanno spostato o fatto inabissare il corso dei grandi fiumi. Dune di Tin Merzouga, Sahara, Algeria George Steinmetz Vicino al confine con il Niger, a sud dell’Oasi di Djanet, l’area del Tadrart algerino è spesso descritta come il deserto più bello del mondo: un dedalo di dune color arancio, che superano i 1000 metri, punteggiato da guglie e pinnacoli di roccia cesellata dall’erosione.
Atlante d’acqua Come una pompa, nel Sahara, altissime temperature aspirano durante il giorno l’umidità dagli strati sotterranei. Arrivano così in superficie i sali, che rimarranno sul terreno a renderlo sterile, per effetto dell’evaporazione. Eppure, anche in assenza quasi totale di precipitazioni, il Sahara non è completamente arido. Albergano nel suo sottosuolo enormi riserve d’acqua, falde riempite milioni di anni fa e falde che si rinnovano attraverso le piogge e il drenaggio notturno dell’umidità atmosferica. Non solo. Ancora oggi, il grande spazio vuoto mostra lo scheletro fossile disegnato dagli alvei fluviali preistorici, gli wadi, dove lo scorrimento di acque superficiali è quasi nullo, ma dove le piene, di portata eccezionale, possono improvvisamente arrivare anche a distanza di decenni. Il deserto porta dunque iscritto sul terreno, in tutta la sua estensione, il disegno della sua antica rete idrografica. I luoghi più bassi sono le grandi depressioni, punto di convergenza di un gran numero di wadi. Paludi salate, grandi laghi evaporati dalla superficie insidiosa coperta da una crosta di sale, percorse dai forti venti che le tengono libere dalla sabbia. Nella parte nord del Sahara, dove ancora permane un’umidità superficiale, si trovano i chott, mentre le sebkha, nel deserto più interno, hanno superfici completamente aride. Deserto del Sahara, Adrar/Tamanghasset, Algeria Christian Lemâle Vista aerea della rete idrografica della Preistoria nel sud algerino. Nell’area oggi corrispondente al deserto del Sahara, è chiaramente identificabile il tracciato dei grandi fiumi che, dopo la fine dell’ultima glaciazione – nel 10.000 a.C. – hanno profondamente inciso la crosta terrestre.
Erg, il mare di sabbia Erg è il nome dei grandi scenari creati dal vento, regioni di dune che si organizzano in lunghe catene per centinaia di chilometri, mari di sabbia estesi a perdita d’occhio nel Sahara. Come nel Grande Erg Orientale Algerino dune imponenti, allineate parallelamente alla direzione dei venti dominanti, superano talvolta i 200 m d’altezza. La forma degli Erg risponde perciò a geometrie complesse, che variano per fattori eolici. La loro posizione però non cambia: il fronte di dune resta allo sbocco della rete di wadi, i fiumi della Preistoria che trasportarono i primi sedimenti sabbiosi da cui gli Erg hanno avuto origine. È per questo che ai piedi di una grande duna, che sembra pronta a travolgerle, è possibile vedere Oasi installate da centinaia di anni, senza che ciò sia mai accaduto. Come il mare sulle coste, l’Erg si muove continuamente, ma non è un pericolo, se non a seguito di avvenimenti catastrofici. Oasis di M’Hamid El Ghizlane, Souss-Massa-Drâa, Marocco Rosa Frei Al limitare dell’Oasi risalendo verso ovest, le dune dell’Erg Lihoudi preannunciano il deserto, luogo di transito per allevatori nomadi.
Wadi, il fiume preistorico Sulle grandi estensioni piane del deserto, visti dal cielo, gli wadi, sono immediatamente riconoscibili. Come arterie di un possente sistema circolatorio, gli antichi fiumi ormai scomparsi hanno dato origine a mastodontici canyon, ma anche a strette incisioni tra alte pareti rocciose o a larghi tracciati in mezzo a un mare di dune. In questi alvei preistorici le piene improvvise, frutto di piogge su lontanissime montagne, si riversano precipitosamente, garantendo la vita di centinaia di Oasi lungo il loro percorso sinuoso. L’acqua, il cui scorrimento é spesso rallentato da antichi e sapienti sistemi di sbarramento, infiltrandosi, rimane sottoterra: si alimentano così le falde acquifere. Da queste, nei villaggi e nei palmeti di Oasi incastonate quasi sul fondo o adagiate su rive sabbiose, un’infinità di pozzi e tradizionali sistemi di captazione trarranno acqua per irrigare e per uso domestico. Utilizzando gli wadi, anche le dune di sabbia riescono a rifornire le falde. Come un’enorme massa spugnosa, le sabbie trattengono il liquido e lo riparano dalla forte evaporazione. Attraverso micro-flussi sotterranei lo scorrimento, sia pur lentissimo, continua in modo invisibile sotto il letto degli wadi, convergendo perciò, da milioni di anni, nella rete idrografica della Preistoria. Wadi di Damm, Ad Dakhliyah, Oman Ahmed Al-Shukaili Nell’alveo del fiume preistorico, il profondo canyon scavato nel corso dei millenni, wadi Damm scorre ancora oggi tutto l’anno, se pur con una portata ridotta. Si trovano nelle vicinanze, le vestigia della necropoli di Bat e degli insediamenti di Al-Ayn, l’esempio più antico di “civiltà delle Oasi” del Terzo Millennio a.C.
I confini dell’Oasi Secondo tradizione nomadi carovanieri o semi-nomadi del deserto mantengono i collegamenti tra le Oasi, assicurando i contatti e veicolando le informazioni. Grazie ad essi, le Oasi del Sahara e dei deserti d’Arabia non sono mai state comunità culturalmente isolate. I loro confini hanno idealmente abbracciato territori molto lontani, quelli da cui provenivano le merci in viaggio lungo le vie carovaniere. Si alimentava e ha prosperato per secoli, in virtù dell’esistenza delle Oasi, il commercio nel mondo antico, decisamente strategico per le economie dei grandi imperi del passato. Oasi di Ouargla, Algeria Yann Arthus Bertrand Fenicotteri rosa in volo sul Chott Oum Erraneb. E’ una zona di passaggio sulla rotta migratoria che attraversa il Sahara fino alle coste dell’Africa occidentale. Nell’Antichità greca il fenicottero rosa (Phoenicopterus ruber roseus) era chiamato “uccello dalle ali di fiamme”e d è l’unica specie di fenicotteri presente in Europa, dove si ferma da aprile a ottobre. E’ uccello costiero, che trova nutrimento in zone umide dalle acque salmastre. Deve il suo colore al carotene, contenuto nel pigmento dei minuscoli crostacei di cui va ghiotto.
I villaggi nell’Oasi Un patrimonio di forme architettoniche che raccoglie la storia dell’adattamento al clima di interi popoli, coerente nella scelta di materiali naturali a disposizione, ecco i villaggi nell’Oasi. Il più delle volte un insieme fortificato di rara unità plastica, che irraggia i colori minerali del suolo da cui nasce in perfetta continuità. Uno straordinario esempio di fusione tra l’opera dell’uomo e la natura. Forma urbana densa, costruita per ridurre al minimo la superficie esposta ai raggi solari, case alte fino a 6 piani, addossate le une alle altre, aperte soprattutto a nord. Strade strettissime, dall’andamento serpeggiante, a garantire l’ombra di alte facciate e conservare, più a lungo possibile, il fresco della notte. Solai che passano a ponte sul percorso urbano alimentano correnti d’aria creando l’effetto Bernoulli, zone di alta e bassa pressione che sono fonte di inaspettato refrigerio. La stessa funzione cui assolvono gli spazi coperti che sostituiscono le piazze, dove ci si siede e si discute. La moschea, le abitazioni più modeste, quelle più importanti, un unico grande edificio-villaggio, disseminato di terrazze al posto dei tetti. La casa dell’Oasi, tutta rivolta all’interno, si apre verso il cielo nel patio o nella corte, fulcro attorno al quale la vita domestica usa gli spazi secondo un nomadismo dettato dalle stagioni. Architettura e modi di costruzione, nella tradizione, in terra cruda o in pietra, con una misura data dagli attrezzi o imposta dalla natura, come accade per i solai in legno di palma che riducono la dimensione delle stanze, per via della modesta resistenza del tronco. La saggezza estrema della consuetudine, che produce una bellezza dal sapore fiabesco perché immutabile. La terra cruda, materiale d’elezione, straordinariamente funzionale, teme però la pioggia insistente e ha bisogno di manutenzione appena il sole torna a splendere. Oasi di Beni Isguen, Ghardaïa, Algeria George Steinmetz Vista aerea di Beni Isguen, l’ultimo dei 5 villaggi ibaditi cresciuti in successione a partire dall’Anno Mille, sugli affioramenti rocciosi lungo lo wadi M’Zab. Concepito nel 1300, ha una struttura ad alveare e abitazioni tutte uguali organizzate in modo concentrico attorno alla moschea. Questa campeggia nel punto più alto, perché il minareto potesse svolgere funzione di avvistamento quando le incursioni dei predoni erano frequenti. Attorno alla moschea, nella prima cerchia, sono le abitazioni dei religiosi e poi a scendere quelle di tutti gli altri. Un ordine che rimandava esattamente alla funzione ricoperta da ciascuno all’interno della comunità. Si evidenzia qui una concezione urbanistica assolutamente originale, dove gli elementi della dottrina religiosa ibadita si fondono con le necessità legate all’economia dell’Oasi. I villaggi nell’Oasi Un patrimonio di forme architettoniche che raccoglie la storia dell’adattamento al clima di interi popoli, coerente nella scelta di materiali naturali a disposizione, ecco i villaggi nell’Oasi. Il più delle volte un insieme fortificato di rara unità plastica, che irraggia i colori minerali del suolo da cui nasce in perfetta continuità. Uno straordinario esempio di fusione tra l’opera dell’uomo e la natura. Forma urbana densa, costruita per ridurre al minimo la superficie esposta ai raggi solari, case alte fino a 6 piani, addossate le une alle altre, aperte soprattutto a nord. Strade strettissime, dall’andamento serpeggiante, a garantire l’ombra di alte facciate e conservare, più a lungo possibile, il fresco della notte. Solai che passano a ponte sul percorso urbano alimentano correnti d’aria creando l’effetto Bernoulli, zone di alta e bassa pressione che sono fonte di inaspettato refrigerio. La stessa funzione cui assolvono gli spazi coperti che sostituiscono le piazze, dove ci si siede e si discute. La moschea, le abitazioni più modeste, quelle più importanti, un unico grande edificio-villaggio, disseminato di terrazze al posto dei tetti. La casa dell’Oasi, tutta rivolta all’interno, si apre verso il cielo nel patio o nella corte, fulcro attorno al quale la vita domestica usa gli spazi secondo un nomadismo dettato dalle stagioni. Architettura e modi di costruzione, nella tradizione, in terra cruda o in pietra, con una misura data dagli attrezzi o imposta dalla natura, come accade per i solai in legno di palma che riducono la dimensione delle stanze, per via della modesta resistenza del tronco. La saggezza estrema della consuetudine, che produce una bellezza dal sapore fiabesco perché immutabile. La terra cruda, materiale d’elezione, straordinariamente funzionale, teme però la pioggia insistente e ha bisogno di manutenzione appena il sole torna a splendere. Oasi di Ghadames, Tripolitania, Libia George Steinmetz Una delle porte di accesso alla città storica, all’ora del tramonto. All’inizio degli Anni 80 – come per tutte le Oasi libiche – il colonnello Mu’ammar Gheddafi ordinò lo sgombero della Medina, trasferendo gli abitanti in case limitrofe costruite in cemento. L’assoluta inadeguatezza di questo materiale al contesto climatico, per non dire della conformazione e dell’aspetto di questi insediamenti, è il motivo per cui durante l’estate, o in occasione di festività, molti di loro tornano nella città vecchia, al fresco. La medina ha qui caratteristiche peculiari: è divisa in sette quartieri racchiusi da mura, ognuno con i suoi pozzi, le piazze, i mercati, le moschee. Un labirinto di strade, dove affacciano case impreziosite da interni pieni di nicchie, vetri colorati e specchi, che moltiplicano i giochi di luce sulle pareti affrescate.
Nomadi Grazie ai proventi del commercio carovaniero, al suo culmine nel Tardo Medioevo, i nomadi sono stati per secoli l’élite economica nel Sahara e nei deserti d’Arabia. Pastori, proprietari terrieri nelle Oasi, mercanti di spezie, oro e di schiavi, alle volte sedentari in seguito al mutare delle condizioni climatiche. Hanno tramandato la propria cultura attraverso il disegno nei tappeti, le forme dei monili, le decorazioni negli oggetti di uso comune, i tatuaggi rituali del corpo, I cangianti intrecci delle capigliature femminili. Ancora oggi i nomadi, allevatori di capre e dromedari, per quanto ormai un’esigua minoranza errante attraverso le frontiere di stati diversi, spuntano, dal nulla in mezzo al nulla, al seguito di sparse mandrie. Questa élite è l’originaria casta guerriera delle antiche società tribali del deserto fortemente gerarchizzate. Per la loro sopravvivenza hanno imparato a monitorare elementi impalpabili: aria, luce, suono, calore. Sono questi gli indicatori che segnalano la natura del terreno, variazioni meteorologiche, possibilità di nuovi pascoli, direzioni di percorso, punti d’acqua. Tutt’ora, nel corso di una transumanza o lungo il tracciato di una via carovaniera, l’attenzione al minimo cambiamento dell’habitat può salvare una vita. Accade, per esempio, sulle rotte dell’Azalaj di Taoudenni in Mali o del Taghlamt di Bilma in Niger, le ultime, leggendarie, Vie del Sale ancora in uso. Regione di Adrar, Mauritania Michał Huniewicz Nomadi mauri, durante una sosta nelle vicinanze dell’Oasi di Chinguetti. Allevatori e al tempo stesso mercanti, sono ancora presenti in quelle zone della Mauritania che – durante il Medioevo – videro l’epoca d’oro del commercio carovaniero sahariano, tra il Maghreb e l’Africa Occidentale.
Dromedario, nave del deserto Riponi la tue fede in Dio, recita un proverbio, ma lega stretto il tuo cammello. E certamente, per chi abita il deserto, nessun bene è più prezioso. Originario dell’Asia centrale, il cammello battriano ha due gobbe, mentre il dromedario con una sola gobba, più veloce e snello, vive in Arabia, Nord Africa, India. Domesticato 3000 anni fa nel sud-est della penisola arabica, da allora il suo allevamento è appannaggio delle tribù beduine in Arabia e di quelle tuaregh nel Sahara, nomadi o semi nomadi. L’aristocrazia di guerrieri e mercanti, che servendosi del dromedario come nave del deserto e della costellazione di Oasi impiantate lungo il cammino, ha fatto fiorire i commerci terrestri del mondo antico. Organismo vivente perfetto, ineguagliabile per adattabilità, intelligenza, resistenza alla fatica, il dromedario è assai longevo, 50 anni. Si nutre d’erba, arbusti anche i più spinosi, e si sposta di continuo, riuscendo così a non esaurire la vegetazione dei suoi magri pascoli. Tutto, nella sua fisiologia, parla di adattamento all’habitat: la conformazione delle orecchie, delle palpebre, la doppia fila di ciglia che è tale per schermarsi dal sole e dal vento sabbioso, le narici, che umidificano l’aria a ogni ispirazione. La famosa gobba, tessuto fibroso e grasso, è lo strategico marchingegno che serve a fronteggiare temperature elevate. Una riserva energetica concentrata in un unico punto, che permette al resto del corpo di disperdere il calore. Nella stagione fredda la femmina del dromedario riesce a dare fino a 12 litri di latte al giorno, anche senza bere per diverse settimane. Le carovane perciò, da sempre, si mettono in marcia in autunno, quando gli animali sono più grassi e meglio preparati ad affrontare la lunga traversata. Sarà una marcia in fila indiana, durante la quale ciascun dromedario sapientemente sceglie di stare nell’ombra del compagno che lo precede. Erg Aouker, Tagant, Mauritania Giancarlo Salvador Nomadi allevatori di dromedari abbeverano le mandrie. La sorgente di Hassi Fouini è posta ai margini di quello che una volta era il lago preistorico Aoukar. Sulle rive di questo grande bacino, gli scavi archeologici hanno individuato i resti di una moltitudine di villaggi, a testimonianza del fiorire di un’antica civiltà, tra il 1700 e il 400 a.C. Dromedario, nave del deserto Riponi la tue fede in Dio, recita un proverbio, ma lega stretto il tuo cammello. E certamente, per chi abita il deserto, nessun bene è più prezioso. Originario dell’Asia centrale, il cammello battriano ha due gobbe, mentre il dromedario con una sola gobba, più veloce e snello, vive in Arabia, Nord Africa, India. Domesticato 3000 anni fa nel sud-est della penisola arabica, da allora il suo allevamento è appannaggio delle tribù beduine in Arabia e di quelle tuaregh nel Sahara, nomadi o semi nomadi. L’aristocrazia di guerrieri e mercanti, che servendosi del dromedario come nave del deserto e della costellazione di Oasi impiantate lungo il cammino, ha fatto fiorire i commerci terrestri del mondo antico. Organismo vivente perfetto, ineguagliabile per adattabilità, intelligenza, resistenza alla fatica, il dromedario è assai longevo, 50 anni. Si nutre d’erba, arbusti anche i più spinosi, e si sposta di continuo, riuscendo così a non esaurire la vegetazione dei suoi magri pascoli. Tutto, nella sua fisiologia, parla di adattamento all’habitat: la conformazione delle orecchie, delle palpebre, la doppia fila di ciglia che è tale per schermarsi dal sole e dal vento sabbioso, le narici, che umidificano l’aria a ogni ispirazione. La famosa gobba, tessuto fibroso e grasso, è lo strategico marchingegno che serve a fronteggiare temperature elevate. Una riserva energetica concentrata in un unico punto, che permette al resto del corpo di disperdere il calore. Nella stagione fredda la femmina del dromedario riesce a dare fino a 12 litri di latte al giorno, anche senza bere per diverse settimane. Le carovane perciò, da sempre, si mettono in marcia in autunno, quando gli animali sono più grassi e meglio preparati ad affrontare la lunga traversata. Sarà una marcia in fila indiana, durante la quale ciascun dromedario sapientemente sceglie di stare nell’ombra del compagno che lo precede. Oasi di Douz, Kebili, Tunisia Patrick Zachmann Un momento della contrattazione durante la compravendita di un dromedario. Tutti i giorni, sulla piazza principale dell’Oasi, il grande mercato ospita un folto gruppo di allevatori nomadi con i loro animali, in attesa dei clienti.
Le Vie dell’Incenso e delle Spezie Fattore propulsivo dell’economia mondiale fin dall’Antichità, il commercio carovaniero deve il suo sviluppo a tre elementi: le Oasi, garanzia di approvvigionamento d’acqua, alcune divenute città leggendarie e prosperi snodi commerciali; le comunità nomadi, a gestire gli scambi e il trasporto; il dromedario, la nave del deserto, domesticato nella penisola arabica nel I millennio a.C.. Accade quindi che è proprio lungo quelle vie carovaniere trans-arabiche, a partire dal 700 a.C., che si scontrano gli interessi commerciali dei grandi Imperi: Babilonia, l’Egitto, l’Antica Grecia, Roma. La più importante fra tutte, la Via del Mar Rosso, congiungeva il Mediterraneo e le zone costiere dell’Arabia del Sud, affacciate sullo sterminato Oceano indiano. Sono anche le zone dove si producono le spezie, e dove si inaugurano fiorenti basi commerciali per ancora altre merci in arrivo dal lontano Oriente, dall’India, Ceylon, Malesia, Indonesia, Cina. Ma è l’incenso – la “fragranza che colle sue esalazioni divine invade i sensi di ognuno” nelle parole dello storico greco Diodoro Siculo – quella più costosa e richiesta, quando la domanda, a partire dal 300 a.C., aumenta in modo esponenziale e investe tutta l’area del Mediterraneo. Soprattutto la qualità pregiata che proveniva dagli altopiani dell’attuale Yemen. Viaggeranno in quantità – sulle stesse rotte e ancora per un paio di secoli – anche una gran varietà di aromata, da usare come condimenti, profumi o nelle preparazioni medicinali e cosmetiche: la mirra e l’aloe, il balsamo, il cinnamomo cinese e indiano, la cassia e il cumino e poi ancora manna, amomo, lo zafferano dall’India e dalla Cina. A questi si aggiungono metalli preziosi, legni rari, avorio. Sono i romani, nel I secolo d.C. sulla base di una valutazione costi-benefici, a decretare la fine dell’epoca d’oro delle rotte carovaniere trans-arabiche. All’impero ormai conviene dirottare i suoi traffici sulle nuove vie marittime, divenute più convenienti e sicure, anche se un commercio di minor scala continuerà, ancora fino alla metà del Novecento. Antica Mappa della Penisola Arabica, datata 1654 d.C. Library of Congress, USA L’Arabia “Felix” rappresentava per i Romani – che avevano così denominato il sud e sud-ovest della penisola arabica – una terra leggendaria, che immaginavano straordinariamente fertile: da lì proveniva l’incenso e lì viaggiavano le spezie portate dall’India. Era dunque all’opposto di ciò che chiamavano Arabia “Petrea” , l’antico regno Sabbateo a nord est, divenuto provincia romana nel 106, e dell’Arabia “Deserta”, immenso territorio al centro della penisola, popolato da tribù nomadi. E’ dunque per conquistare l’Arabia Felix e i suoi porti, che l’Imperatore Augusto nel 26 a.C. incarica il prefetto d’Egitto, Elio Gallo, di organizzare una spedizione. L’armata romana conta 10.000 uomini, ma viene decimata, in mancanza di corrette informazioni geografiche e impreparata ad affrontare condizioni climatiche estreme. Ciò avviene dopo che, nel corso della stessa spedizione, era fallito anche l’assedio di Māʾrib, capitale del regno di Saba. Qui si poteva ammirare la diga che era il capolavoro idraulico dell’Antichità, costruita per irrigare 100 km² in pieno deserto. Le Vie dell’Incenso e delle Spezie Fattore propulsivo dell’economia mondiale fin dall’Antichità, il commercio carovaniero deve il suo sviluppo a tre elementi: le Oasi, garanzia di approvvigionamento d’acqua, alcune divenute città leggendarie e prosperi snodi commerciali; le comunità nomadi, a gestire gli scambi e il trasporto; il dromedario, la nave del deserto, domesticato nella penisola arabica nel I millennio a.C.. Accade quindi che è proprio lungo quelle vie carovaniere trans-arabiche, a partire dal 700 a.C., che si scontrano gli interessi commerciali dei grandi Imperi: Babilonia, l’Egitto, l’Antica Grecia, Roma. La più importante fra tutte, la Via del Mar Rosso, congiungeva il Mediterraneo e le zone costiere dell’Arabia del Sud, affacciate sullo sterminato Oceano indiano. Sono anche le zone dove si producono le spezie, e dove si inaugurano fiorenti basi commerciali per ancora altre merci in arrivo dal lontano Oriente, dall’India, Ceylon, Malesia, Indonesia, Cina. Ma è l’incenso – la “fragranza che colle sue esalazioni divine invade i sensi di ognuno” nelle parole dello storico greco Diodoro Siculo – quella più costosa e richiesta, quando la domanda, a partire dal 300 a.C., aumenta in modo esponenziale e investe tutta l’area del Mediterraneo. Soprattutto la qualità pregiata che proveniva dagli altopiani dell’attuale Yemen. Viaggeranno in quantità – sulle stesse rotte e ancora per un paio di secoli – anche una gran varietà di aromata, da usare come condimenti, profumi o nelle preparazioni medicinali e cosmetiche: la mirra e l’aloe, il balsamo, il cinnamomo cinese e indiano, la cassia e il cumino e poi ancora manna, amomo, lo zafferano dall’Idia e dalla Cina. A questi si aggiungono metalli preziosi, legni rari, avorio. Sono i romani, nel I secolo d.C. sulla base di una valutazione costi-benefici, a decretare la fine dell’epoca d’oro delle rotte carovaniere trans-arabiche. All’impero ormai conviene dirottare i suoi traffici sulle nuove vie marittime, divenute più convenienti e sicure, anche se un commercio di minor scala continuerà, ancora fino alla metà del Novecento. Oasi di Shibam, Hadramawt, Yemen George Steinmetz Shibam fu costruita in posizione strategica lungo la Via dell’Incenso e delle Spezie nel primo Millennio a.C. e successivamente ricostruita sulle vestigia dell’insediamento parzialmente distrutto da una piena nel 1532. La città si erge – all’interno delle sue fortificazioni – su uno sperone roccioso a centinaia di metri sopra il letto del wadi. La perfetta scacchiera formata dalle vie e dalle piazze, costellata dalle alte case-torri in mattoni di terra cruda, è l’esempio più significativo di architettura urbana tradizionale hadrami, esistente in Yemen.
Le Vie del Sale e dell’Oro Fin dalla Preistoria, il traffico mercantile che è solo l’aspetto quantificabile di un trasferimento multiforme di valori culturali, sociali, religiosi, ha messo in comunicazione l’Africa sub-sahariana e il Mediterraneo. Un secolo dopo la nascita di Maometto, nel 700 d.C., la principale rotta trans-sahariana di questi scambi é quella che privilegia il margine occidentale del grande deserto. Sigilmassa, estesa Oasi verdeggiante in Marocco, ricco emporio ai margini delle sabbie, è la città-mercato verso cui convergevano merci di valore come l’avorio, le piume di struzzo e anche gli schiavi. Su questo asse, con le loro carovane, i mercanti arabi diffondono l’Islam, creando allo stesso tempo un insieme economico allargato. Sedentari o nomadi, arabi, berberi, neri, produttori o commercianti, musulmani o ebrei, cristiani o animisti, tutti ugualmente partecipano al buon funzionamento del sistema. A partire dal 1300 prenderà il sopravvento una nuova rotta nel Sahara centrale, che porta al mare attraverso il deserto libico. Saranno allora i Touaregs Kel Air, allevatori di dromedari, aristocrazia guerriera e mercantile, a esercitare il controllo dei traffici nella zona chiave, il vasto altipiano che in Niger si erge ai margini del Sahel. La nuova via carovaniera rimarrà in esercizio fino a tutto il 1800, nonostante la presenza di insediamenti portoghesi sulle coste atlantiche, grazie ai quali, a partire dal 1500, si inaugurano le vie marittime verso l’Europa. Oro dal Mali e dal Ghana, e poi “l’oro bianco”, il salgemma purissimo estratto nelle miniere di Mali, Mauritania e Niger, sono merci dotate di un alto valore di mercato e di un eccellente rapporto qualità-peso. Si giustifica così, su ogni tratta, per non meno di 60 giorni, il dispendio di uomini e animali. Oro e sale, che diventano lo strumento di scambio privilegiato, creano intorno all’Anno Mille e per molti secoli, la ricchezza di una città leggendaria: Timbuktu. Era questo anche lo snodo principale dell’Azalaj di Taoudenni in Mali, l’aspra via del sale di 600 Km tuttora in uso, al pari di quella del Taghlamt in Niger, che va da Agadez alle saline di Bilma. Nonostante la concorrenza di camion che effettuano i trasporti percorrendo strade moderne, su questa via carovaniera, da marzo e a novembre, gli uomini partono ancora a piedi con decine di dromedari che avranno ognuno, al ritorno, un carico di 120 kg di sale. Oasi di Tichitt, Adrar, Mauritania Yann Arthus Bertrand Carovana di dromedari, che trasporta merci attraverso il deserto, nelle vicinanze dell’Oasi. Ovunque nel Sahara il dromedario è parte importante del patrimonio zootecnico nazionale, allevato per il latte e la carne, ma anche per la sua lana. Per migliaia di anni, grazie al perfetto adattamento a condizioni ambientali estreme, ha permesso lo sviluppo di nuove rotte commerciali attraverso i deserti, favorendo, al tempo stesso, lo scambio tra culture di popoli molto lontani tra loro e la diffusione delle religioni. Le Vie del Sale e dell’Oro Fin dalla Preistoria, il traffico mercantile che è solo l’aspetto quantificabile di un trasferimento multiforme di valori culturali, sociali, religiosi, ha messo in comunicazione l’Africa sub-sahariana e il Mediterraneo. Un secolo dopo la nascita di Maometto, nel 700 d.C., la principale rotta trans-sahariana di questi scambi é quella che privilegia il margine occidentale del grande deserto. Sigilmassa, estesa Oasi verdeggiante in Marocco, ricco emporio ai margini delle sabbie, è la città-mercato verso cui convergevano merci di valore come l’avorio, le piume di struzzo e anche gli schiavi. Su questo asse, con le loro carovane, i mercanti arabi diffondono l’Islam, creando allo stesso tempo un insieme economico allargato. Sedentari o nomadi, arabi, berberi, neri, produttori o commercianti, musulmani o ebrei, cristiani o animisti, tutti ugualmente partecipano al buon funzionamento del sistema. A partire dal 1300 fin prenderà il sopravvento una nuova rotta nel Sahara centrale, che porta al mare attraverso il deserto libico. Saranno allora i Touaregs Kel Air, allevatori di dromedari, aristocrazia guerriera e mercantile, a esercitare il controllo dei traffici nella zona chiave, il vasto altipiano che in Niger si erge ai margini del Sahel. La nuova via carovaniera rimarrà in esercizio fino a tutto il 1800, nonostante la presenza di insediamenti portoghesi sulle coste atlantiche, grazie ai quali, a partire dal 1500, si inaugurano le vie marittime verso l’Europa. Oro dal Mali e dal Ghana, e poi “l’oro bianco”, il salgemma purissimo estratto nelle miniere di Mali, Mauritania e Niger, sono merci dotate di un alto valore di mercato e di un eccellente rapporto qualità-peso. Si giustifica così, su ogni tratta, per non meno di 60 giorni, il dispendio di uomini e animali. Oro e sale, che diventano lo strumento di scambio privilegiato, creano intorno all’Anno Mille e per molti secoli, la ricchezza di una città leggendaria: Timbuktu. Era questo anche lo snodo principale dell’Azalaj di Taoudenni in Mali, l’aspra via del sale di 600 Km tuttora in uso, al pari di quella del Taghlamt in Niger, che va da Agadez alle saline di Bilma. Nonostante la concorrenza di camion che effettuano i trasporti percorrendo strade moderne, su questa via carovaniera, da marzo e a novembre, gli uomini partono ancora a piedi con decine di dromedari che avranno ognuno, al ritorno, un carico di 120 kg di sale. Via del Sale, Deserto del Ténéré, Niger Alissa Descotes Toyosaki Mercanti tuareg si riposano dopo una giornata di cammino della carovana del Taghlamt . Si tratta della traversata di 1400 km nel deserto del Teneré, da Agadez, alle saline di Bilma e ritorno, che ancora si compie tra ottobre e novembre, per 1 mese. Il viaggio, l’intera traversata e i suoi protagonisti, sono stati recentemente raccontati nell’affascinante documentario « Caravan to the Future » realizzato da Alissa Descotes Toyosaki. Ai primi del Novecento la carovana era composta da 10.000 dromedari, un corteo che si dispiegava per 25 chilometri. Nell’immagine si notano anche i pani di sale a forma conica, kantu, che vengono trasportati a dorso di dromedario e saranno venduti al mercato di Agadez.